domenica 30 ottobre 2005

concorso letterario nel pomeriggio



Ho parcheggiato la moto mentre arrivavano Bice e Antonio L. Ci siamo scambiati i saluti e qualche battuta, lo facciamo sempre, poi abbiamo raggiunto il viale d’accesso a Villa Niscemi cosparso di sabbia di tufo che faceva scricchiolare il  passo.


Due tipe ci hanno chiesto dove fosse la sala in cui si sarebbe svolta la manifestazione, cui eravamo diretti anche noi.
“il vigile urbano al cancello ci ha detto entrando a destra” ha detto una delle tipe.
“ma a destra c’è il laghetto delle oche” ha risposto Bice.
appunto” stavo per dire io, svelando così la mia stima nei confronti delle tipe, ma Bice mi ha prevenuto con una delle sue fulminanti occhiate.
Poi, nel cortile di Villa Niscemi si sono materializzati dei commandos nuziali scesi da BMW nere lucide,   composti da coppia sposo-sposa in abiti neri disegnati dallo stesso couturier che veste Darth Vader in Guerre Stellari, le damigelle in completini neri sadomaso, altre parenti strette, che continuamente palpeggiavano le plissettature della tuta spaziale nera della sposa, pareva che avevano appena razziato   un pornoshop: ma si sa, de gustibus!
Devo dire, ad onor del vero, che anche tra i convenuti per la premiazione del concorso letterario spiccavano delle mise audaci, del genere vitellina da concorso o mi sono messo la giacca che non me la metto mai e questa che mi sono messo puzza di sudore che non la porto mai in lavanderia tanto non me la metto mai.
Io giudico le persone seguendo un algoritmo che vede tra i passaggi cruciali quello dell’impatto olfattivo, che se è negativo porta direttamente fuori dallo schema, cassando ogni possibilità di futuro recupero.
Intanto la faccenda non cominciava, si aspettava il rappresentante dell’autorità comunale, impersonato da un ex picchiatore nero dal corto collo; è arrivato ben oltre la mezz’ora di tolleranza, ma c’è chi ha fatto di peggio. La presidente della giuria si è andata a collocare al posto d’onore un’ora dopo l’orario ufficiale: ma è ovvio, le persone importanti si fanno aspettare.
Il picchiatore è stato chiamato dalla organizzatrice del concorso a fare il suo discorsetto: non lo aveva preparato, ma se l’è cavata abbastanza bene, frullando un assortimento di banalità assortite, e dichiarandosi felice di essere ad un concorso di poesia. In effetti il concorso era di narrativa, ma lui è un uomo d’azione, e probabilmente le ossa di un poeta o di un narratore fanno lo stesso rumore quando si spezzano.
Io volevo prendere le mie copie del volumetto antologico, anche per vedere l’effetto che fa a vedere il proprio nome su dentro un libro, ma l’abbronzata dama preposta alla vendita delle antologie ha detto che bisognava aspettare la conclusione.
Poi sgranando gli occhi strapazzati dall’eyeliner mi ha detto “le copie si pagano, non sono gratis, eh!”.
Probabilmente era stata avvisata da qualcuno del fatto che i palermitani sono bravissimi a scroccare ciò che altrove si paga, e che molti di loro hanno conseguito laurea e master in scippo e sottrazione indebita di volumi antologici, e si premuniva : meglio dire chi sacciu e non chi sapia.
Elio è andato a comprarsi le sigarette, a me è arrivato l’sms di Massimo, il mio figlio minore che se ne era andato a spassarsela al bowling, “papà ho finito vieni a prendermi”.
Cosicché ho rifatto il viale croccante al contrario, ho montato la moto mentre arrivavano altre berline nere con squadriglie nuziali da guerra, e sono andato a recuperare il figlio.
Così facendo mi sono perso la mia passerella di partecipante arrivato in finale ma non tra i migliori, e la medaglia d’ordinanza me l’hanno data dopo, quasi di soppiatto e quasi rimproverandomi per essermi fatto beccare assente all’appello.
Avrei potuto dire “mi scappava” ma non sono credibile quando invento le scuse.
Poi sono riuscito ugualmente a corrompere la rigida funzionaria e a farmi consegnare le copie che avevo prenotato, improvvisando una acrobazia monetaria con Elio, e sollevando la rigida dalla somministrazione del resto in moneta, che la procedura le aveva provocato una fibrillazione ventricolare, uno scotomo, un fischio all’orecchio ed una contrazione tonico clonica al polpaccio destro: succede sempre, che ti mettono alla cassa “tu prendi i soldi e non farti fregare” e poi non ti danno le monete per il resto.
A casa ho scoperto che non capisco niente. Io e Massimo ce ne eravamo andati prima della proclamazione dei vincitori, si faceva tardi e invece gli organizzatori continuavano a fare suonare un trio jazz come se l’evento fosse la musica e non la scrittura.
Ho sfogliato il volumetto, ed ho scoperto che il racconto vincitore me lo aveva mandato una collega del laboratorio di scrittura, per leggerlo. Io lo avevo bocciato senza appello, non mi era piaciuto il modo in cui era scritto, carente di congiunzioni e con le parole attaccate da trattini, invece è arrivato primo.
Appare evidente che di scrittura non ne capisco niente, presenterò le mie scuse all’autrice e mi darò all’itticoltura.

sabato 29 ottobre 2005

siamo i Franz Ferdinand



Londra, esterno sera, i treni nella tube viaggiano con ventinove secondi di ritardo, con grave disappunto del signor Smith, che ha preso con sè l’ombrello uscendo da casa, anche se stamattina il sole spaccava le vecchie pietre del Big Ben.
Una Ford Cortina Gt del ’67 si ferma davanti ad un sontuoso cancello, ne scendono quattro giovani, facce normali da bravi ragazzi.
“E’ qui?”
“si state calmi, ora premo il pulsante del citofono”
“ma non c’è scritto niente”
“le persone famose non mettono il nome sopra il bottone: cosa volevi che ci scrivesse? Qui abitano i Pink Floyd?”
“non stiamo cercando i Pink Floyd”
“Roger Waters ha suonato con loro, ha composto la maggior parte della loro musica”
“ah, ora ho capito”.
Il cancello si apre, trascinato dagli stantuffi del meccanismo elettroidraulico, un uomo in vestaglia di seta si affaccia in cima alla scalinata che conduce all’ingresso principale.
“chi siete, cosa volete?”
“siamo i Franz Ferdinand”
“mi spiace, non ho ordinato cucina austriaca a domicilio, e se siete piazzisti non compro niente”
“siamo un gruppo rock, abbiamo bisogno del suo aiuto per il nostro secondo album”.
“non siete drogati o rapinatori allora?”
“no, no signor Waters, per favore ci ascolti”.
“cari figlioli, io sono passato alla musica classica, ne avrò per qualche anno, sto componendo un’opera e non posso darvi nessun aiuto”
Roger Waters si gira verso la porta, e sta per rientrare.
“la cucina, la cucina , quella dove avete preparato la colazione psichedelica di Alan!” urla disperato uno del gruppo.
L’uomo in vestaglia si ferma, guarda i ragazzi con attenzione.
“passate dalla porta sul retro, lì si va direttamente in cucina, ma non fate casino, e quando finite pulite tutto”.
I Franz Ferdinand si accomodano nella cucina psichedelica, tutto è colorato in tinte fluo, gli armadietti riportano motivi optical che fanno girare gli occhi.
Sono un po’ indecisi, non sanno quale armadietto aprire.
“quali sono gli ingredienti? Cosa vi serve?” dice Roger Waters.
“allora, un po’ di estasi”
“siete drogati, ora chiamo la polizia”
“no, no, XTC, white album!” strepita uno del gruppo.
“armadio basso, dove ci sono le cose per dipingere”
“e ora vorremmo Oasis”
“ci troviamo in Inghilterra, figliolo, non in Egitto”
“signor Waters, gli Oasis dei fratelli Gallagher!”
“ah, ho capito, guardate dove tengo l’aceto e gli acidi per pulire”.
La preparazione prosegue per qualche tempo, vengono convocati e riesumati anche i Rolling Stones, brandelli di Cure, qualche grammo di U2, scampoli di Talking Heads.
Dopo alcune ore di preparazione, mentre la governante di Roger Waters ha preparato frittelle per tutti, il disco è pronto.

Questa storia me l’ha raccontata lo spirito musicale che è uscito dalla copertina non appena ho aperto il cd “you could have it so much better” dei Franz Ferdinand, ascoltare per credere!!!  I pink non c'entrano niente, ma mi serviva il riferimento della colazione psichedelica...

venerdì 21 ottobre 2005

una questione di corna?



“La tigre e la neve” di Roberto Benigni.

Tutto un problema di corna. Un bizzarro professore di poesia tradisce la moglie per una giovane collega inglese, causando l’allontanamento da casa della moglie, che viene a scoprire quanto successo tra i due.
Lui comunque tenta di ricongiungersi con lei con acrobazie materiali e verbali, ma senza successo.
La moglie, giornalista, si reca in Iraq per completare la biografia di un poeta, amico del marito; durante l’ultima intervista però resta coinvolta in un attentato, prende una botta in testa ed entra in coma.
Il professore viene avvisato telefonicamente dall’amico iracheno, trova il modo,rocambolesco e truffaldino, di arrivare in Iraq con un volo della Croce Rossa per tentare di salvare la vita della moglie.
Sorvolando sulle avventure stile Totò le Mokò che il professore di poesia è costretto suo malgrado a vivere, ci si avvicina ad un epilogo.
Il poeta iracheno, sconvolto dalla guerra e dall’impotenza della forza intellettuale e dell’arte a bloccarla, si suicida appendendosi all’albero di ciliegio del patio della sua casa di Baghdad, la moglie del professore, grazie alle amorevoli cure di lui riesce ad uscire dal coma, e lascia l’Iraq senza il marito, che nel frattempo è rimasto coinvolto in una retata americana ed imprigionato come sospetto terrorista.
Quando finalmente riesce a farsi rilasciare, torna in Italia anche lui, ma all’aeroporto viene arrestato poiché inseguito da un mandato di cattura nazionale, derivante dal non essersi presentato ad un’udienza, nonostante il suo avvocato lo avesse avvertito.
Viene rilasciato, e mentre tenta di raggiungere la moglie e le figlie a casa, incappa in un blocco stradale causato da un incendio allo zoo di Roma: gli animali sono tutti scappati mentre la primavera riempie l’aria di batuffoli di polline, e sembra che stia nevicando.
La moglie di lui, mentre tenta di rincasare, si imbatte in una tigre, e questa immagine riporta lo spettatore ad una affermazione di lei, fatta all’inizio del film, quando gli dice che ritornerà insieme a lui solo quando vedrà una tigre nella neve, parafrasando così il titolo di un libro di poesie.
Finalmente il professore riesce a rientrare a casa, la moglie non sa che è stato lui a guarirla a Baghdad, lo capisce solo quando vede che la sua collana con ciondolo pende dal collo di lui; a questo punto qualsiasi spettatore ottimista immagina, anche se non lo vede, un amorevole lieto fine.
Quella che ho sommariamente raccontato è la trama del nuovo film di Roberto Benigni, “la tigre e la neve”.
Chi si aspettava un’opera epica, dalla poetica mistica, con una raffica di denunce forti contro la guerra e la follia dell’uomo resterà deluso. Il film descrive, in maniera per certi versi esilarante, le conseguenze di un tradimento; nella storia sono iperboliche, e proprio questo aumenta il risultato tragicomico.
Roberto Benigni si inventa delle gag in cui sembra proprio Totò, la moglie interpretata dalla reale moglie, Nicoletta Braschi, è sufficientemente antipatica per il ruolo che le compete, Jean Reno, solitamente coinvolto in storie al limite della realtà, assomiglia ad un poeta iracheno ma non lo è.
Compare nel film anche un cameo di Tom Waits, del quale però non si comprende la motivazione.
Per finire, io lo consiglio per sorridere e non pensare troppo, per farsi convinti che la poesia non può salvare il mondo dalla pazzia, e che un film per essere gradevole non debba per forza contenere messaggi di denuncia.
Tutto un problema di corna, e guai a catena.

l'uomo può volare



Au revoir M. Folon. Aujourd'hui vous savez que l'homme peut voler
 

martedì 18 ottobre 2005

gazzosa per tutti



“La vedi quella fontanella? Ci venivamo a dissetare dopo che finivamo le partite al chianu. Altro che cocacola o quelle bottiglie colorate che costano due euro e dopo che l’hai bevuta ti viene la sete più forte di prima.
E a lavarci le ginocchia sbucciate, non si poteva tornare a casa ngrasciati di sterro e sangue, che poi le madri si mettevano ad abbanniare nei cortili, e per qualche giorno ci tenevano alla catena.
Lo vedi quel mucchio di lamiere? Quelle erano tutte baracche e ieri le hanno buttate giù e domani vengono le ruspe a sbarazzare tutto. Ci sarà di nuovo un chianu dove i ragazzini del rione potranno andare a giocare a pallone come facevo io. Te ne sei accorto che i picciriddi non giocano più a pallone nelle strade?”
Mi dice queste cose mentre passeggiamo sulle basole instabili di una stretta strada del centro storico, dove alcuni palazzi sono lindi di restauro e facciata rinfrescata, altri trasmettono angoscia e paura di crollo, con i loro balconi spalancati che sembrano occhiaie di teschio.
Saranno a casa a fare i compiti, o a giocare ai videogiochi o a guardare la televisione, rispondo io.
“Lo sai, sono consigliere di quartiere, qui ci sono nato, anche se non ho studiato lo so cosa vogliono i picciutteddi, che se li lasci chiusi a casa si fulminano il cervello con la plaistation.”
Massimo si ferma, guarda di nuovo la bidonville demolita, sicuramente torna al ricordo del chianu. E delle partite contrarie, che si cominciava alle due, dopo avere svuotato il piatto di pasta e fagioli, e si finiva solo quando scurava.
“ci giocavamo cento lire a partita, le squadre erano sempre più o meno le stesse, se venivi a vedere non capivi niente, tutti appresso al pallone nel pruvulazzo, e c’era il figlio del salumiere che a casa aveva la televisione e la madre ci cuciva i numeri dei giocatori sulla maglietta bianca, qualche volta di nascosto portava il pallone di cuoio e diceva enzi quando c’era fallo di mano, e conne per il calcio d’angolo, che l’ho scoperto solo da grande che significavano quelle parole.”
Ma chi ti ha dato ascolto? Per fare questi lavori, chiedo a Massimo.
“Lo sai che qui vengono gli onorevoli a pigliarsi i voti, e mi cercano, Massimo di qui e Massimo di là; ma io ci trovo i voti solo a quelli che mi stanno simpatici, lo decido io chi acchiana nel rione, che a fare promesse sono tutti bravi e poi mancianu e su scordanu. Invece questo onorevole, si quello che mi ha detto Massimù portati per il consiglio di quartiere, questo onorevole ti dicevo, quello che ha fatto la delibera per mandare la ruspa domani, a lui gli ho fatto comprare una casa qui, l’abbiamo ristrutturata, ci sono gli affreschi nel tetto, che per riempire gli occhi non c’è bisogno di quadri alle pareti, pure io che le scuole non le ho finite lo capisco che sono cose belle, bellissime, e siccome l’anno prossimo mi sposo, l’ho comprata pure io una casa con i tetti dipinti.
Angeli, cavalieri, fimmine bellissime, che quando ci andrò a stare con mia moglie ci sentiremo come quei baroni che ci abitavano prima, e se mi affaccio dal terrazzino si vede lo Spasimo.”
Massimo si ferma e apre il guscio del cellulare.
“Te la faccio vedere, tanto ormai siamo amici io e tu, guarda, questa è lei, e questa è mia nipote, guarda che bambola, la figlia di mia sorella, quella che se n’è fuiuta. Mia madre la tiene chiusa la ragazza, che è troppo bella, e sarebbe peccato che se ne fuisce come mia sorella. Mio cognato? Quello era uno schifo, ora è al colleggio, ma quando esce qui non gli conviene venire, che lo faccio scomparire.”
Guardo nel microscopico display del telefonino, le foto che lui mi fa vedere con tanto orgoglio, foto di ragazze giovani che si spera non sfioriranno presto come le madri e le nonne. Alla parola scomparire lo guardo negli occhi, forse troppo severamente, e lui si mette a ridere.
“Scomparire è un modo di dire, che pensi, un bravo ragazzo sono, mio cognato, anzi il mio ex-cognato, che ci portai le carte all’avvocato per farla separare a mia sorella, lui è uno schifo d’uomo, e qui non ci torna più”.
Il Genio di Palermo in cima alla fontana guarda sconsolato un imponente edificio avvolto dalle impalcature, in attesa di restauro dopo un incendio doloso di dieci anni fa.
“lo sai che facciamo? Ci pigliamo un caffé, poi nella macchina ho un supertele, ce ne andiamo al chianu, chiamiamo ai miei nipoti e facciamo una porta romana.”
Va bene, dico io, chi perde paga la gazzosa per tutti.


Piccolo glossario di termini palermitani:

chianu: spiazzo, piazza sterrata
ngrasciati: sporchi (da grascia, grasso)
abbanniare: gridare sguaiatamente ( il banditore abbannia gli editti del sindaco, il venditore ambulante abbannia la sua merce)
picciriddi: bambini
picciutteddi: ragazzi in età puberale
scurare: tramontare del sole
pruvulazzo: polverone
enzi: distorto dall’inglese hands, mani
conne: distorto dall’inglese corner, calcio d’angolo
acchiana: viene eletto, da acchianare, salire
mancianu e su scordanu: mangiano e se ne dimenticano, metaforico.
fuiuta: colei che fa la fuitina, cioè viene rapita dallo spasimante per organizzare subito dopo un matrimonio riparatore
colleggio: a Palermo si intende il carcere borbonico dell’Ucciardone, detto anche albergo, tuttora attivo.
 

sabato 15 ottobre 2005

ricordino


Si usa fare un richiamo anche per la vaccinazione, per cui ricordo ai lettori di questa finestra, soprattutto ai più distratti, che è online il numero 5 di sacripante! e che in questo numero si trova anche un mio racconto dal titolo  "un tipo marginale" ( www.sacripante.it/005/ideefisse/15.asp )

giovedì 13 ottobre 2005

avvisi ai naviganti nel golfo di palermo

 


golfo di palermo

















 


















Avviso numero 1: i volumi delle edizioni   untitl.ed  si trovano a Palermo solo presso la libreria “modusvivendi”; chiedeteli al mio amico Fabrizio, che troverà anche il modo di rifilarvi qualcosaltro, magari un volume di Paolo Nori.  


 


Avviso numero 2: il mio amico (eh che parolone!) Antonio Lo Cicero si è messo in testa che doveva farsi un libro tutto da solo; lo ha fatto e si sta vendendo. Se passate da Fabrizio, oltre alla terna di untitl.ed, e al libro di Paolo Nori, vi farà scivolare  tra le mani anche questo, (si chiama “a che fare col sud”) che a vederlo pare inoffensivo come libretto, ma contiene tre storie palermitane, di cui la terza mi è proprio piaciuta.  


 


Avviso numero 3: ricominciano i laboratori di scrittura e gli incontri di lettura de “gli amici di Oblomov” (chi era costui?), frequentando i quali correrete il rischio di incontrare me, Antonio Lo Cicero e Fabrizio, oltre a molti altri coltivatori di narrative assortite.


Quest’anno sono articolati così:


-         per/corso per principianti (per cominciare a raccontare)


-         per/corso intermedio (per chi già scrive e vorrebbe farlo meglio)


-         per/corso per chi scrive da tempo ( e vuole tenere aperto uno spazio di confronto e discussione)


-         Biblomov (liberi incontri di lettura, a tema o a personaggio)


-         Servizio di editing.  


 


Avviso numero 4: toponomastica adattativa. Un tale si trova in via Brunetto Latini, che è una strada trafficata vicino al Tribunale di Palermo, ed al cellulare cerca di spiegare all’altro dove si trova e come si chiama

la strada.  Siccome sulla targa della toponomastica è riportato B. Latini, il tizio urla al compare “mi trovo in via blatini, blatini, no sarà sicuramente sbagliato, devi venire in via platini, si si platinì, vicino al tribunale. Vi giuro che è vero, l’ho ascoltato oggi dal finestrino abbassato della Passat.


 


 


 


 

martedì 11 ottobre 2005

Senza titolo 5


questi sono diversi tipi di margini;  e hanno qualcosa in comune con la scrittura, perchè dagli alberi si fa la carta e perchè la scrittura può essere dentata e mordere, seghettata e ferire, ondulata ed ammaliare.


nel caso servisse, un repertorio di scritture marginali lo trovate al numero 5 di sacripante! ( www.sacripante.it ) da oggi online.

sabato 8 ottobre 2005

cornuti alla via oreto


 


Neanche faccio trecentometri in via Oreto che le macchine si impastano, il traffico è bloccato, sale il fumo dalla strada stretta, alcuni stronzi si attaccano al clacson ma che cazzo ci suoni, non lo vedi che siamo tutti fermi? gli dico uscendo la mano dal finestrino; la buttana con il muso pittato nella centoventisette allato alla mia mi guarda con un occhio solo, ché l’altro è pieno di fumo, si sta sucanno una sigaretta, creitinotestadiminchia , dice senza levarsi la marlboro dalla bocca, e poi si gira.


Allora mi attacco al clacson pure io cornuti, cornuti, fateci passare grido con la testa fuori dal tettuccio di tela della cinquecento.


E’ tutto fermo,   la macchina è invasa dal nerofumo dell’autobus numero 102 che sgassa davanti a me, e dall’odore appiccicoso di fritto del panellaro, che se ne fotte del traffico e continua a buttare panelle e crocchè nell’olio bollente.


Non ne posso più di restare nell’abitacolo, che pare una camera a gas, e allora scendo, tanto anche altri che erano nelle macchine sono scesi; uno si legge il giornale, uno litiga con la moglie, bella grassa e sudata, uno che conosco mi dice amunì totò, andiamo a vedere che succede lassotto…le senti le voci?.


Le sento le voci, si sente gridare e rumore di lanna sbattuta, e sirene che vengono dalla direzione opposta; man mano che ci avviciniamo la gente è tutta affacciata nei balconi e davanti alle putìe, talìano nella direzione del bordello ma non si vede ancora niente.


Piero cammina ammuttanno quelli che ci capitano vicini, lui ha una panza da operaio, di quelli che alla fine della giornata di manovale vanno alla taverna e si bevono la giornata tutta a birra e vino schifiato, solo che Piero non è operaio, si fotte la pensione delle zie paralitiche che ha a casa, e se la beve, tanto le zie devono crepare, che le cura a fare, dice.


Altri si sono rassegnati, hanno spento il motore della macchina ed sono scesi pure loro, ma non si allontanano, macari qualcuno vede lo sportello aperto e si ammucca l’autoradio, la via oreto è piena di scassapagghiari, appena ti volti te la fanno.


Ora il rumore di lanna sbattuta è forte, e si sentono le voci che gridano “lavoro, lavoro, lavoro”, andateci a lavorare penso io,


e si vedono cassonetti abbuccati e tutta la munnizza sparpagghiata per terra, e qualche cornuto col giornale e l’accendino in mano che sta cercando di bruciarli, i cassonetti.


Venti venticinque persone, alcuni sono seduti per terra, altri sui cofani delle macchine e fanno finta di non accorgersene che quelli dentro suonano il clacson come i pazzi, e i cassonetti messi di traverso, già da uno esce fumo, gli sbirri in tenuta antisommossa sembrano una mandria di bufali che scalcia e arretra, uno che forse è un pezzo grosso parla nel telefonino tenendosi la mano davanti alla bocca, e fa avanti e indietro tra la linea dei celerini e la diga di plastica verde improvvisata dagli scioperanti.


Non si passa, non si sposta nessuno, i commercianti hanno abbassato le saracinesche, si scantano che a momenti succede il vivamaria, alcune casalinghe arricampano le lenzuola stese, ora che il fumo fituso della munnizza e della plastica sale, e gridano pure loro ma c’è troppo bordello e non si capisce niente.


Lo sbirro in borghese smette di parlare al cellulare, se lo infila in tasca, si volta e dice qualcosa ad un celerino con manganello e megafono nelle mani, quello cala la testa e comincia a gridare nel megafono, i dimostranti sgomberino pacificamente la pubblica via, altrimenti le forze dell’ordine saranno costrette ad usare la forza, e Piero dice Totò amuninni ora a qualcuno ci rompono le corna, vola una bottiglia che fuma, manco il tempo di capire che succede che uno sbirro piglia fuoco, e due compagni lo aiutano mentre quello cade a terra, coprendolo con gli schermi di plexiglas, manco il tempo di capire se lo sbirro s’abbruciò che parte la carica dei celerini, un catafottersi di legnate e di sprangate, manco il tempo di pensare scappo che mentre sto scappando appresso a Piero che si era defilato prima ,sento una legnata in testa e diventa tutto buio, e forse faccio in tempo a gridare ancora in mezzo al gran casino, tutti cornuti siete.


 

martedì 4 ottobre 2005

salire e scendere dal Monte Pellegrino



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Ultimamente ho deciso di perdere peso, di dimagrire insomma. Molto spesso, negli ultimi mesi, ho preso questa decisione; prima però si è messa di mezzo la Pasqua, e lo stillicidio di feste e festini che la seguono, poi è arrivata l’estate.


L’estate, con i suoi riti e le sue cerimonie accelerate.


Sarà che sto invecchiando, ma con gli amici con i quali ci si vede solo in spiaggia,   perché durante l’anno loro vivono lontani o per qualche motivo sono troppo impegnati, insomma va a finire che ogni scusa è buona per organizzare un pranzo o una cena : il mese di agosto è stato un rallye enogastronomico dal quale sono uscito pesantemente segnato.


Quindi, tornato in città, ho nuovamente deciso di dimagrire. Mi sono un po’ messo a dieta, solo un poco però, senza privazioni da campo di sterminio, ed ho rimesso a posto la bicicletta da corsa, che necessitava di qualche intervento di manutenzione: in palestra non mi sono iscritto, i miei istruttori preferiti sono emigrati in un nuovo centro ipermoderno ma tragicamente lontano da casa mia, ed io che per anni sono andato in palestra a piedi, adesso faccio fatica a pensare di dover prendere la macchina o la moto, ma questa è un’altra storia.


Ho cominciato ad uscire il pomeriggio, tanto fa ancora buio abbastanza tardi, alla fine del lavoro (ho un orario molto flessibile, sono un dipendente esterno, e questo ha i suoi vantaggi), facendo prima dei giri in pianura, poi cimentandomi con la montagna che sovrasta Palermo.


Che in fondo è orograficamente una montagna  solo per poche decine di metri, altrimenti sarebbe un colle, ma la strada che si inerpica, circa dieci chilometri, è decisamente ripida.


La pista che porta alla cima del Monte Pellegrino, dove si trova anche il santuario della Patrona della città,

la famosissima Santuzza ,  Santa Rosalia, si presta ad usi diversi a seconda della stagione, dell’orario, delle intenzioni di chi la percorre.


Può essere scalata a piedi, magari scalzi, per sciogliere il voto fatto alla Santuzza, fermandosi ogni tanto per sbucciare qualche ficodindia strappato alle enormi piante che costeggiano tutta la carreggiata, oppure in automobile, per verificarne la tenuta di strada e lo scatto in montagna, o in moto, o in bicicletta per testare la propria efficienza motoria, come faccio io.


Comunque è una strada che non collega due punti della città: si sale per andare al santuario, o per godere della vista, o per altro.


C’è da dire che lungo i quasi dieci chilometri di percorso si trovano numerose piazzole e traverse cieche che sono adeguatamente sfruttate dalle coppiette in cerca di intimità.


La solita commistione tipicamente meridionale tra sacro e profana carnalità dirà qualcuno, e credo che abbia ragione.


Mi succede, mentre sto arrancando sui pedali spingendo un rapporto duro, duro per me che sono in soprappeso ovviamente, dicevo che mi succede di guardare, per i pochi secondi in cui le incrocio, le coppie dentro gli abitacoli delle auto che salgono o scendono, e di sorprendermi a pensare quanto siano disomogenee, lui così vecchio e lei cosi giovane; è probabile che si tratti di padre e figlia che sono andati a pregare, ma il mio spirito guardone gli affibbia l’etichetta di amanti che hanno appena finito di copulare.


Oppure di pensare che in quella cabriolet accostata al guard-rail, dove lui sta scrutando l’infinito con occhi semichiusi, lei sia ripiegata, intenta ad eseguire una amorevole fellatio.


Comunque la cosa migliore da guardare, per evitare di controllare sempre il trip computer della bici e scoprire che nell’ultimo minuto ho percorso solo cento metri, è il panorama.


Dopo pochi tornanti la città si offre tutta, con la sua forma a clessidra, da un lato il porto, il Cassaro e tutti i quartieri che si affacciano sul golfo di Palermo, dall’altro, dopo la strozzatura della Favorita e la piana dei Colli, l’ampolla sabbiosa di Mondello, chiusa dalla mole severa di Capo Gallo e dell’Addaura dall’altra parte.


Ci sono sempre attraccate alle banchine navi enormi con fantasiosi fumaioli colorati, che eruttano sulla terraferma turisti da crociera con gli occhi ancora incispati dal sonno, gonfi di cibo e bevande che obbligatoriamente vengono consumate durante la navigazione, ché se non mangi viene il Capitano e ti scruta come se fossi un sovversivo, o un terrorista: il principale divertimento di questo tipo di viaggio è mangiare a tutte le ore, a ciclo continuo, come in un allevamento industriale.


Quando si vede la spiaggia di Mondello, col suo golfo che sfuma le diverse tonalità dell’azzurro prima e del blu dopo, significa che sono arrivato in cima, che la faticaccia è finita e che posso controllare il cronometro per scoprire se ho impiegato meno tempo della volta precedente, e complimentarmi da solo.


Stappo la bottiglia di integratore salino che mi sono portato appresso, aspetto che le pulsazioni riprendano un ritmo regolare, e mi accosto al muretto per guardare giù.


Contemplando il litorale dorato mi viene il desiderio di fare un tuffo, e contemporaneamente penso a mio padre, la cui assenza quest’anno in spiaggia è stata evidente: la spiaggia di Santa Maria non è la stessa senza di lui, “eh si vede che manca papà” mi dicevano i conoscenti dopo che qualcuno li aveva informati che lui se n’era andato in silenzio in una stellata e crudele notte di febbraio.


“già, si vede che manca, te lo ricordi, siamo stati i primi a piantare un ombrellone su questo arenile”.


Sto divagando, mentre in discesa dovrò stare attento a frenare con decisione, la pendenza è forte e si raggiungono velocità impensabili per un mezzo a trazione umana.


Mentre la strada si riavvicina alla pianura si attraversano anche un paio di gallerie non illuminate, scavate nella roccia viva che, quando i costumi sessuali erano più rigidi, e portarsi la fidanzata a casa per certe pratiche era severamente proibito, erano piene di utilitarie parcheggiate a destra e sinistra con i vetri ricoperti dai giornali, e la puzza di sperma rancido e il cigolio delle sospensioni delle macchinette che si muovevano al ritmo dei lombi dei passeggeri non lasciavano nulla all’immaginazione.


Ricordo che una volta, mentre attraversavamo questi luoghi viscidi in auto con i miei genitori, ebbi a chiedere a mia madre, di ritorno da una funzione religiosa al santuario, (ero piccolo, uno stupido scolaro di scuola elementare) “mamma perché queste macchine sono qui al buio con i vetri coperti?”, e lei con un guizzo di fantasia istantaneamente rispose “sono operai che sono stanchi del lavoro, non possono tornare a casa e vengono qui a dormire al buio”. Per molti anni la spiegazione  fu sufficiente, adesso appartarsi dentro questi tunnel bui  e umidi non si usa più, sia per il pericolo di essere assaliti da malintenzionati, sia perché ci sono posti più comodi.


Prima di ritornare al livello del mare, dentro il viale che corre nel parco della Favorita, e riaffrontare un chilometro di salita leggera, si passa davanti ad un filotto di ville abusive in stile Hollywood dei poveri; alcune non sono state completate, forse per il tempestivo ed improbabile intervento dei Vigili Urbani, forse per l’esaurimento delle finanze, spesso illecite, di chi le stava costruendo, e sembrano scheletri di balene adagiate sul calcare grigio della montagna.


Oggi un pallone evaso dal cancello di una di queste ville mi ha tagliato la strada, ed ha preso velocità lungo la discesa, subito dopo un bambino abbigliato come un piccolo calciatore è sbucato da un cancello, e vedendo il super santos che accelerava verso l’ignoto si è messo le mani nei capelli: ho mollato i freni e raggiunto la sfera rotolante, facendola fermare poi contro la ruota anteriore, opportunamente sterzata. Nel frattempo è arrivato il ragazzino, il cui sguardo si è riempito di gratitudine, ha ripreso la palla  di gomma rossa ed è scappato via: mi sono sentito autore di una ottima buona azione .


Poi mi sono ricordato che se volevo, facevo ancora in tempo per vedere la partita di calcio in televisione ed ho ripreso a scendere per tornare a casa, smoviolando pensieri vari( a papà non piaceva il calcio       e mi faceva rabbia non potere vedere le poche partite che negli anni sessanta-settanta venivano trasmesse alla televisione, ma anche se non mi facevi tifare davanti al vecchio Brionvega mi manchi lo stesso papà) .