giovedì 23 febbraio 2006

non sono stato io?


Che quando mi spiegano qualcosa che non so, mi interesso davvero. Come quando mi hanno spiegato che dopo l’operazione di prostata si ha una eiaculazione retrograda.

Cioè che il seme non esce dal davanti, cosa che provoca spesso situazioni imbarazzanti in presenza di donne, ma torna indietro e si deposita nella vescica. E non c’è rischio di restare incinti o mettere incinta la collega.

“comodo” ho pensato, “comodo per tutti quelli che si fanno una sega davanti alla tv, mentre scorrono le signorine dei telefoni porno, non devono neanche più alzarsi dalla poltrona e andare a sgrullare via lo sperma nel lavandino della cucina”.

Poi mi hanno spiegato che spesso, nel corso di questi interventi chirurgici, viene tagliato un nervo, e non si rizza più. “allora che senso ha parlare di eiaculazione retrograda se in realtà non ti si rizza neanche se ti fai le flebo di viagra?”.

Però è utile saperle, le cose. Così quando mi diranno che mi devo operare di prostata, mi suiciderò di seghe davanti la tv, sparandomi tutti di dvd di Moana Pozzi, che era così bona e porca che sembrava finta, infatti mi hanno raccontato che non è vero che è morta, è stata una invenzione per uscire dal giro sporco del porno. E che ora fa la casalinga in Svizzera, e alleva oche e tacchini in giardino. Si vede che non ha paura dell’aviaria.

E che c’è sempre da imparare, sempre. Io ad esempio ho sempre creduto che chi ha una carica importante dello stato e fa cazzate, per la vergogna si dimetta. Qualcuno si è anche sparato una pistolettata in bocca davanti alla telecamera, ma mi è sembrato francamente esagerato, e poi il filmato non l’hanno fatto vedere tutto, si è capito solo che quel tale si infilava una cosa di ferro in bocca, prima aveva gridato frasi sconnesse e incomprensibili (gridava in inglese, per forza erano incomprensibili) e poi si era messo stà cosa di metallo lucido in bocca, e poi la faccia di circostanza del giornalista che diceva non possiamo mandare in onda il resto del filmato, l’etica professionale ce lo impedisce e altre banalità assortite.

Che poi quegli stessi giornalisti leccaculo ospitano il politico potente nella loro trasmissione e se lo cullano come un neonato, lo imboccano quasi, e lasciano che quello le dica grosse, le bugie, e sorridono compiacendosi.

Uno addirittura aveva una maglietta sotto la camicia su cui c’erano stampate delle cose xenofobe, e si è aperto la camicia in diretta al telegiornale, e il giornalista non ha piegato un solo pelo del suo baffetto da leccaculo ordinato.

Mi hanno detto che poi hanno devastato una ambasciata, in uno stato musulmano povero. Che quelli, essendo poveri, non hanno un cazzo da fare tutto il giorno, e uno di quelli che ha studiato teologia li chiama e gli dice che ci sono panini e cocacola per tutti se vanno a bruciare un palazzo o a scannare dieci venti europei, ma non per rappresaglia, solo così per ingannare il tempo.

E quello che ha studiato gli dice anche che se crepano sparati dalla polizia vanno in paradiso dove troveranno acqua, alcool, alberi e fica in abbondanza, che tanto nella vita di merda che fanno non hanno niente, e quelli si fanno sparare felici, o si mettono le cinture e gli zainetti esplosivi, l’ho visto in televisione, e fanno allegramente delle stragi, spappolandosi tutti.

Sinceramente, quello che li invita a farsi accoppare, deve essere un grande furbo, perché lui non si fa mai avanti per primo, ma dev’essere un difetto di tutti gli intellettuali estremisti, che prima lanciano la pietra, o la molotov, e poi dicono non sono stato io.

giovedì 16 febbraio 2006

quello fuori dalla foto















il passo veloce del figlioil passo veloce del figlio


























Nella mia vita ho ricevuto numerose lettere di rifiuto da parte degli editori: ammetto che la maggior parte erano scritte molto bene, dei piccoli capolavori di teoria del cortese diniego.
Quando queste missive, generalmente prestampate, erano firmate da donne, contenevano anche una forte carica erotica, quella che viene dal no, quella che lascia aperta una remota ipotesi di seduzione, quella di chi ti dice “oggi non te la do, non te la darò mai, ma forse, un giorno, chissà, in una remota stazione ferroviaria aspettando un treno che non arriva a causa di una tormenta di neve, se  saremo casualmente seduti vicini, e dopo due ore ci guarderemo negli occhi e tu, timido scrittore inespresso, troverai il titanico coraggio di alzarti e chiedermi una informazione, forse, quel giorno, ti darò un bacio. Ma uno solo, e poi ti lascerò a roderti di nostalgia per tutta la tua noiosa esistenza di scrittore inespresso”.
Una di quelle prospettive che fanno venire l’emicrania, e mi costringono a cercare un cachet, una aspirina, una bustina di antinfiammatorio, un martello per colpire omeopaticamente un’altra parte del corpo, un dito ad esempio, e trasferire lì il dolore. Ma se mi faccio male al dito, non potrò scrivere: dovrò cercare un’altra parte da colpire.
E ieri, dopo l’ultima raffinata lettera di rifiuto, firmata da una donna dal nome esotico “Chantal Mazzettelli”, per via del ragionamento che è automaticamente partito subito dopo, si è manifestata una spettacolare emicrania.
Ho aperto l’ultimo cassetto della scrivania, quello dove conservo tutte quelle cose che non si sa mai un giorno potrebbero servire, e dove tengo anche le confezioni iniziate di analgesici, che solitamente galleggiano sul marasma sottostante.
Ieri, nonostante fossi sicuro che a prima occhiata avrei individuato la scatoletta verde e bianca, ho dovuto rovistare per qualche minuto prima di trovarla.
E causa della posizione giaculatoria, il dolore si è trasferito dalla testa alle ginocchia. Ma non ho pensato di martellarmi le rotule.
Ieri è tornata alla luce una fotografia: una di quelle dei tempi del liceo. L’ho guardata come se fosse la prima volta, come lo scopritore della tomba di Tutankhamon, l’ho guardata per la miliardesima volta in questi anni trascorsi dal 1977.
E sono fuori dalla foto. Non ci sono. Ci sono tutti, c’è anche la professoressa che ci aveva accompagnato in quella gita, ma io non ci sono.
Dietro la fotografia, in un bianco e nero ben contrastato, ottimo fissaggio, dietro la fotografia ho disegnato a pennarello la sagoma delle persone e ho scritto dentro il contorno il nome di ciascuno.
La professoressa di italiano, lei è un po’ in disparte, ha la guida rossa del touring aperta , una borsetta appesa al braccio che sembra uno di quegli affari con cui si pratica il curling, gli occhiali da lettura scivolati sul naso , lo sguardo fisso sulla pagina.
Alcuni di noi erano stati sequestrati da lei mentre ci attardavamo a salire sul pullman noleggiato dalla scuola, artigliati e trascinati fino alla sua fiat ottocentocinquanta special bianco sporco. Molto sporco, di nicotina,   di cenere, di residui umani organici, dentro.
Ho vivo il ricordo del puro terrore che mi attanagliò per tutto il viaggio, mentre lei declamava Catullo togliendo le mani dal volante e lasciando serpeggiare sulla statale la macchina priva di controllo, riprendendola poco prima che si andasse ad accartocciare sui muretti, e del fatto che quel giorno si fosse spalmata il rossetto anche sui denti, rendendo il suo ghigno ancora più vampiresco del solito.
Arrivammo salvi a destinazione, ma quel viaggio mi segnò a lungo, non ebbi il coraggio di salire come passeggero di conducenti donne per molto tempo ancora.
Riguardo la fotografia: c’è Filippo, che un giorno si masturbò in classe, durante la lezione di chimica che si svolgeva nell’aula a forma di anfiteatro. Aveva sotto il piano del banco un giornaletto a fumetti di quelli soft-porno, forse era Lando, o forse era Caballero, adesso non ricordo bene, e lasciò le tracce del suo personale godimento sul cappotto di Anna, che era seduta nella fila sotto di lui.
Dopo questo avvenimento Anna, probabilmente immaginando che lo zampillo fosse stato causato dalla visione della sua treccia, si fidanzò con Filippo. Anna aveva una sorella enorme, che sembrava una lottatrice di sumo, e riusciva a comprimersi dentro una fiat seicento dalle portiere controventate irridendosi delle leggi fisiche che sanciscono l’incomprimibilità dei corpi.
La sorella di Anna era più grande di lei, ma non incuteva timore, cosa che invece faceva il padre, un omino piccolo e secco, ma dallo sguardo lucido di nazista. Nessuno della classe avrebbe voluto averci a che fare, solo Filippo rischiò, e gli andò bene, visto che è ancora vivo, e passeggia la domenica con il suo sorriso stentato da joker, abbarbicato al braccio della moglie. Che è titanica almeno quanto la sorella di Anna.
Poi c’è Pasquale, a destra di Filippo: la stessa postura anche adesso, sbandato di dieci gradi a destra, come una nave in cui si sia spostato il carico nelle stive a causa dei marosi.
Pasquale era di poca compagnia, di poche idee, di scarsi successi scolastici, fu promosso sempre con una aritmetica media del sei. Ho rivisto Pasquale qualche anno fa, stessa inclinazione a destra e passo da comico dei film muti, gli ho chiesto cosa facesse, visto che sapevo che era riuscito a laurearsi.
Mi ha raccontato con la sua parlata da bradipo oscillante che si era proposto di insegnare, ma che riteneva troppo faticoso e moralmente scorretto andare a prendere una cattedra al nord, come quella che gli avevano offerto.
Perché moralmente scorretto chiesi io. Eh, la mamma, la fidanzata, gli amici, non posso abbandonarli per andare ad insegnare al nord mi rispose lui. Lo lasciai sotto un platano, storto quanto lui, sperando di non reincontrarlo mai più.
E poi ci sono gli altri, probabilmente la elevata qualità della carta su cui è stampata la foto farà sì che questa sopravviverà alla maggior parte di loro.
Io non ci sono, sono fuori dalla foto.

 

domenica 5 febbraio 2006

tre su tre


immagine da www.ofthesky.net

Ermes picchiava sulle corde del basso elettrico. Lui non era del tutto convinto che la sua vita stesse imboccando la direzione giusta. Andò fuori tempo, gli altri si fermarono e lo guardarono, arrossì.
Lui stava ancora pensando a come, nella cantina della casa della madre di Monica, avesse avuto una deprecabile eiaculazione precoce, sporcandole la t-shirt nera con il logo dei  franz ferdinand .
Ermes rivedeva con orrore nella sua testa il film della reazione violenta e isterica di Monica.
Andò di nuovo fuori tempo. Il chitarrista alzò le braccia e  disse “cazzo”, il batterista lanciò le bacchette contro la saracinesca del garage, lui staccò il jack dall’amplificatore, mise il basso elettrico a terra, disse agli altri “cazzo, non ho   testa  ”, si rimise il giubbotto di jeans, alzò la saracinesca, uscì dal garage, si avviò senza riflettere verso la casa di Monica.
Sentì un brivido nella schiena, sarà l’umidità pensò, e cercò di spegnere il videoclip di Monica furibonda nel suo cervello.
Due isolati dopo, girò a sinistra, dirigendosi verso la propria casa, dove suo padre lo aspettava sveglio ogni sera, collegato alla bombola di ossigeno portatile, e gli chiedeva ogni sera la stessa cosa: “dove sei stato”. Lui aveva sempre la solita risposta “in giro”, poi aiutò il padre a trasferirsi dalla poltrona in soggiorno alla camera da letto, collocò la bombola nel vano del comodino e gli rimise la mascherina, regolando il flusso al minimo.
Lui pensò con sollievo e con terrore che una di quelle notti sarebbe rimasto solo. Guardò la stanza come se non l’avesse mai vista, memorizzò la posizione dei soprammobili, le fotografie in bianco e nero della madre morta, le ciabatte sformate del padre sul tappetino scendiletto, la sua vestaglia marrone sullo sgabello.


 

Laura lavorava ad una delle   casse del grande magazzino. Una assistente staccava le etichette e disattivava la protezione antifurto della merce. Lei passava i cartellini sotto al lettore ottico, controllava sul monitor che le quantità corrispondessero, chiedeva conferma alle clienti.
Cercava di non farsi distrarre dal sottofondo di musica commerciale che si diffondeva dagli altoparlanti sul soffitto, detestava il fatto che l’assistente canticchiasse sottovoce alcune di quelle canzoni.
Poi diceva ad alta voce l’importo, ed attendeva che le clienti le dicessero in che modo volevano pagare. Nel frattempo l’assistente preparava una busta di carta con manici di corda marrone, e restava in attesa che il pagamento andasse a buon fine prima di imbustare il tutto.
Il contratto prevedeva che Laura e la sua assistente sorridessero alle clienti quando ricevevano il pacco dalle loro mani.
L’assistente di Laura era una immigrata che emanava un insopportabile afrore, e non faceva nulla per mascherarlo.
Laura credeva che quell’odore le avrebbe causato un tumore, e teneva nascosta nell’armadietto dello spogliatoio una lettera indirizzata al capo del personale. In questa lettera lei chiedeva di essere spostata ad un altro reparto, o che venisse sostituita la collega dalle ascelle mefitiche.
Pochi giorni dopo che Laura aveva scritto la lettera, era stato emanato un nuovo regolamento per la condotta del personale del grande magazzino, in cui veniva chiaramente detto che comportamenti a sfondo razzista o discriminatorio per religione o idee politiche avrebbero potuto comportare il licenziamento dei dipendenti.
non sono razzista, è che a quella puzzano le ascelle da morire” pensò Laura prima di conservare la lettera nel suo armadietto.
Aveva anche acquistato un deodorante, ma temeva che regalarlo alla collega ne avrebbe provocato una reazione inattesa, un rapporto ai superiori, e conseguenze che non voleva neanche immaginare.
Laura premette il tasto della cassa automatica che autorizzava l’emissione dello scontrino, lo mise nelle mani di una cliente, sorrise e disse grazie come da contratto, trattenendo il respiro mentre l’assistente, per la diciannovesima volta in quel pomeriggio, alzava il pacco oltre il bancone per consegnarlo alla cliente.


 

Ho la testa dura, ed ho studiato, si disse Natalia prima di aprire la porta. Durante i suoi soggiorni in quel paese straniero per i corsi di specializzazione e per i congressi aveva più volte espresso un desiderio interiore, sopprimendolo subito dopo.
Sono una donna straniera, non riuscirei a lavorare qui, si diceva per giustificare il fatto che non voleva programmare un trasferimento.
Poi, un’estate, aveva conosciuto un uomo, con lui era trasferita nel paese straniero: tutto andò per il verso giusto, tranne il fatto che quell’uomo, più grande di lei di parecchi anni, non la amasse per niente.
Aprì la porta dello studio. Gli odori raggiunsero disordinatamente le cellule olfattive di Natalia. Eugenolo, vernice fresca, sapone liquido alla lavanda, disinfettante per ferri chirurgici.
Natalia indossò il camice verde, sfilò le scarpe col tacco, fece scivolare i piedi dentro dei calzari da sala operatoria, sterilizzati il giorno prima.
“Forse è una precauzione eccessiva”, le aveva detto un collega a cui aveva descritto per filo e per segno le procedure di sicurezza che lei aveva standardizzato .
Sono una professionista, non improvviso niente, pensò Natalia entrando nella stanza dove c’era la poltrona odontoiatrica e il riunito con tutti gli attrezzi.
“Il paziente delle nove e trenta sta ritardando”, le disse la segretaria dall’interfono.
Natalia ripassò la procedura, non saltò nessun passaggio.
Riandò con il pensiero al pomeriggio prima.
Sfiorò il braccialetto portafortuna che lui le aveva regalato.
“è un filo sottile, di scarso valore, ma ti aiuterà a non dimenticarti di me” aveva detto lui il pomeriggio del giorno prima.
Lui glielo aveva annodato al polso e poi l’aveva baciata.
Lei non pensava che avrebbe potuto succedere, ma non fece niente per impedirglielo, non fece niente per impedirgli di portarla nella camera di un hotel   del centro dove lui soggiornava per una sola notte, di passaggio in quella città estranea per tutti e due.
So cosa voglio, sono una donna forte, aveva pensato Natalia mentre dentro l’ascensore che saliva al quattordicesimo piano lui le sorrideva e le teneva la mano.
Non fece niente per impedire che lui spegnesse la luce e facesse scendere lentamente la zip del suo abito di Chanel, il suo preferito.
 Natalia non si sorprese   quando gli sfilò la maglietta e gli abbassò i jeans, non si sorprese quando sentì tra le mani il suo sesso caldo, non si sorprese quando lui la chiamò per nome prima di venire dentro di lei.
Poi si rivestirono, lui la invitò a cena, lei non voleva tornare tardi a casa, il tempo procuratosi con la scusa che aveva inventato per allontanarsi stava per terminare.
“Ci rivedremo?” disse Natalia e subito dopo si pentì di quello che aveva detto, lui non rispose, le annodò il braccialetto al polso e la baciò.
Il paziente delle nove e trenta entrò nella stanza alle nove e quarantotto,   diciotto minuti di ritardo, pensò Natalia nascondendo il braccialetto sotto la manica del camice.


 

sabato 4 febbraio 2006

scoiattoli rosa



la macchina si è fermata sul margine di un bosco (un bosco in sicilia? sì, un bosco)
ho abbassato un pò il finestrino, gli occhi erano stanchi di tanto panorama.
(ma quando lavoro guardo anche il panorama?, sì, è uno dei vantaggi di lavorare in giro, con la macchina).
avrò dormito quindici minuti, quando mi sono svegliato, scoiattoli rosa stavano rovistando dovunque.
uno aveva gli occhi blu, e si è rubato il taccuino con gli incipit delle prossime storie che volevo scrivere.
sono senza ispirazione, finchè questi dispettosi animaletti non mi riporteranno le parole che mi hanno rubato.