giovedì 23 settembre 2010

new brand item


Tutto pronto per il lancio, i negozi son stati riforniti nella massima sicurezza e segretezza. Gli insiders sono già all'opera, e le azioni della società hanno raggiunto livelli impensabili, muovendo enormi flussi di capitale che serviranno alla mia prossima impresa..



i_motion ha fatto il vuoto tra la concorrenza, e contiene il nucleo del prossimo prodotto.



Oggi lanciamo i_love, periferica personale che instaura condizioni di amore, utilizzabile in modalità self, other, all, personalizzabile per egoisti, altruisti, cultori dell'amore universale.



Cosa dice, i cinesi? Quelli li abbiamo lasciati indietro, non sono in grado di seguirci; dopo il fallimento planetario della loro ultima copia, il my-pad, si sono arresi. Hanno dovuto comprare i nostri processori emozionali, e li ho costretti a vendere anche i loro prodotti con il nostro marchio.



I-love è un accessorio indispensabile, si potrà usare anche da soli, davanti lo specchio; se avete relazioni col pubblico, con parenti, con amici o solo volete sentirvi più amati, la soluzione è i-love.



Il prossimo progetto? Beh, glielo racconto, questo lo lanciamo il prossimo mese, i beta tester sono soddisfattissimi. I-god. Si, si ha capito bene. I-god. Abbiamo previsto quattro versioni base, i-jesus, i-buddha, i-mecca ed una per gli indiani, personalizzabile con l'ologramma della divinità prescelta. Le posso anche dire che ci sono arrivate richieste per realizzare una versione per Cuba, i-fidel si chiamerà. Ora devo lasciarla, il mondo aspetta, ha bisogno d'amore. Se passa alla reception, c'è un demo per lei.


martedì 7 settembre 2010

la geologia è materia estiva (prima e seconda parte)

Ieri ho depositato la prima parte sul mio profilo Facebook. Chi se la fosse persa, la recupera qui. Ecco.


 Il fiordifragola, il camillino, raramente il lemarancio. La cocacola nella bottiglietta di vetro, con le bollicine che si sentivano distintamente nel palato, una dopo l’altra, seduto col nonno al tavolinetto di metallo del Giardino Inglese.
La prima bicicletta, ero malato, lei era una Olmo rossa, passarono alcuni giorni prima che potessi usarla. I materassi arrotolati prima di partire per le vacanze, la fiat 600 grigio fumo, poi la fiat 1100 D, l’autostrada che allora si prendeva solo sul continente.
Fermati, se già condividi qualcosa, nella geologia dei tuoi ricordi, continua a leggere, altrimenti sarà tempo perso. E per me, che il tempo sta accelerando, anche troppo per i miei gusti, non è mia intenzione farti perdere tempo.
I nonni, non ne ho conosciuti molti, e tutti quanti erano irrimediabilmente vecchi, e privi di attrattiva per un bambino. Nel senso che o erano malati, o molto malati, o avevano altro da fare.
Le costruzioni Plastic City Italocremona, il Lego che era pure meglio ma costava di più, era un prodotto d’importazione, quelle costruzioni fatte di cubi e parallelepipedi di balsa colorati come se fossero pezzi di muro, o finestre e porte: ne venivano fuori case precarie.
La cinepresa 8 mm, poi quella in super 8, le pizze dei cartoni animati montati a casa da papà. Il visore stereoscopico, lo mettevi davanti agli occhi, abbassavi la levetta nera sulla destra e viaggiavi dal Grand Canyon alla Piazza della Concordia, e poi ti sembrava di esserci, in quel posto. Il corriere dei piccoli, poi pomposamente diventato corriere dei ragazzi, ma già ero abbastanza ragazzo per passare a letture alternative. Cassati, non mi piacevano proprio, i fumetti noir e quelli western e pseudo western, passai direttamente a Linus, bello grande, coi fumetti americani che parlavano di politica, erano sarcastici, satirici e sardonici, ma allora questi aggettivi non li conoscevo, mi piacevano e basta.
 Poi, la seconda bicicletta, a lungo sognai una Graziella cross, col cambio a cloche sul telaio, la sella lunga e lo schienale, ed uno dei nonni si era pure offerto di comprarmela, però poi papà mi fece comprare quella normale, di Graziella, bianca che si poteva anche piegare; una bici un po’ finocchia, se mi passate l’espressione, e con la quale ci si poteva ammazzare di fatica ma con le sue ruotine sempre troppo lenta andava.
Carosello, e i cartoni animati con personaggi improbabili che venivano dall’est europa, e poi Alvin, Braccobaldo, la domenica pomeriggio Disneyland, coi cartoni di Paperino e Topolino, documentari sulla vita degli animali, e rappresentazioni dell’America che andavano oltre il surreale, diventando metafisiche.
La spesa alla Standa, da trasportare nei sacchi di carta marroncino a righe, i pattini a rotelle allungabili, con una specie di chiavetta che dopo avevi sempre le mani sbucciate. L’odore delle stagioni che cominciava con gli odori dei tessuti inamidati dal sarto: a fine agosto le misure per i pantaloni di velluto, all’inglese, corti al ginocchio coi bottoncini di lato, le scarpe con la suola di para, i maglioni che saltavano fuori dalla naftalina. Il maxicappotto, il mio era un improbabile mongtomery lungo fino alla caviglia, poi chiesi alla mamma di accorciarlo, talmente era ridicolo.
L’ambra solare, l’ombrellone a righe verdi con i bastoni di legno, quei costumini da bagno larghi che scappavano via tutti gli ammennicoli, tanto in spiaggia eravamo quattro gatti.
Il gommoncino Pirelli gonfiabile, che a fine estate si riempiva di borotalco e si conservava nella sua sacca blu
(esiste ancora, credo). E la luce dorata del tramonto, quella sempre mi è piaciuta, anche se adesso ha un gusto un po’amarostico, quando vedo che il sole si sposta sull’orizzonte, e finirà per tramontare dietro la rocca di Cefalù, mentre prima si tuffava arancione nel mare, significa che l’estate sta finendo. E sorprendermi a domandarmi quante ancora avrò la fortuna di vederne, e fino a quando potrò tuffarmi e fare quelle quaranta bracciate nel mio stile indeciso, che comunque mi porta a quella distanza dalla riva sufficiente a non farmi più sentire pastina nel brodo salato del mare basso-dove-si-tocca.


Il mangiadischi ed i quarantacinque giri che i cugini più grandi (spesso molto più grandi di me) mi regalavano. Antoine, Silvye Vartan, Celentano, Caterina Caselli. La prima radio, una Sanyo a transistor, tascabile che la potevo portare ovunque, e poi quella che mi mettevo sotto al cuscino, la notte, per ascoltare quella musica pop e poi rock che durante il giorno non trasmettevano. Allora c’era solo la rai, col primo, il secondo ed il terzo canale radiofonico, che però era roba per secchioni, di quelli che sapevano chi era Tchaichowskij. Già, chi era?
Il radioregistratore Grundig, quando arrivò mi ricordo ancora la prima canzone che ci registrai al volo, colta dalla radio, era Minuetto di Mia Martini, che ci volete fare, a tredici anni mi piaceva (e penso che mi piacerebbe ancora).
Il Pongo, i lampostil, la gomma-pane e poi il Das, con le sue brave vernici per trasformare in minime opere d’arte quegli ammassi di argilla auto indurente.
Le figurine dei calciatori, roba da idioti diceva papà, ed infatti non ne completai mai un’album; mi vendicavo ritagliando le sagome delle automobili dai quattoruote che lui comprava, allora il listino delle auto era di un paio di pagine appena, e tutte le foto rigorosamente in bianco e nero.



Due pagine di ricordi, e saranno meno dell’uno percento. E’ che quest’anno, in spiaggia, la solita spiaggia, sempre la stessa da cinquant’anni (cinquanta? Così tanti?), mancano un sacco di facce, di volti noti: che qualche anno fa a chiedere ti sentivi rispondere che avevano cambiato spiaggia, oggi ho paura a chiedere. Che il caso migliore è che quel signore, il papà di amici più giovani di te, bambini allora, padri di bambini adesso loro stessi, che quel signore dicevo prima abbia impiantato un pacemaker e che preferisca la canasta alla spiaggia. Che per altri è meglio non chiedere, tanto prima o poi me lo verranno a dire.
Il futuro? Ha le stimmate ai piedi: quelle che mi sono procurato girando per una Milano asfissiata a fine luglio, nel tentativo-miseramente fallito-di trovare un appartamento in grado di accogliere (bozzolo di sicurezza, utero confortevole, stanze per studiare) il mio secondogenito che ha deciso di diventare ingegnere. Ammilano.
Lo guardo e me lo dico “sono i tuoi ultimi giorni d’infanzia, baby. Goditeli, perché tra cinque anni o poco più non avrai più tempo di farlo, se tutto va per il verso giusto verrai travolto dalla vita, diventerai ingranaggio, comincerai a guadagnare, e in Sicilia ci tornerai, spero, solo da turista, portandoti dietro dei colleghi a cui fare conoscere la bellezza di questa terra, e dopo anche una donna, ed infine dei picciriddi che parleranno…che parleranno come? Inglese, tedesco, spagnolo?”.
Lo guardo e non glielo dico, lo scoprirà da solo.
Il futuro? E’ un dottorato di ricerca in Francia, dice il primogenito, e dopo? E dopo?
La Sicilia? Tornateci solo da turisti, dico io. Solo da turisti, che non abbiamo lingue sufficientemente lunghe e raspose per leccare culi e poi raggiungere l’insperato traguardo di fare l’operatore di call-center laureato o il precario a vita.

 
 


 
 


La Sicilia? Scherzando dico agli amici, che vogliono forse sentire la mia opinione (uno che scrive libri ha quasi sicuramente un’opinione da condividere, spesso cambia da un giorno all’altro, ma non ha importanza) la Sicilia dovrebbe essere ricoperta nottetempo da una cupola di vetro, senza uscite, e sotto questa cupola dovrebbero restarci tutti i siciliani, me compreso (e anche voi, amici sulla spiaggia, inutile che ridete se ancora non avete capito dove voglio andare a parare), e dopo aprire il gasdotto che viene dall’Algeria, per tre giorni, giusto il tempo di sterminarci tutti, i Siciliani. Tutti. Politici, parrini, intellettuali, mafiosi, impiegati del comune, dipendenti dell’Ato, burocrati, professori, panellari, ristoratori, parcheggiatori abusivi, figli di buttana, scrittori, giornalisti e invalidi.
E dopo tre giorni, fare arrivare alcune migliaia di islandesi, canadesi, giapponesi, gente di buona volontà, con le ruspe e i cartelli. Con le ruspe per buttare a mare i cadaveri dei siciliani (quelli scampati dovrebbero avere l’ostracismo al ritorno, assoluto) per fare ingrassare i tonni (si dice che i tonni mangino volentieri i cadaveri degli extracomunitari andati a picco nel canale di sicilia) e i cartelli dove dovrebbe essere scritto “Sicilia, paradiso
terrestre per i turisti: vietato l’accesso a tutti quelli che vengono senza amore”. Niente fabbriche, niente uffici, niente assessorati e assessori. Solo le spiagge, le campagne, le montagne, i vulcani, i tramonti, le pecore, la ricotta, la pasta coi ricci, il profumo della zagara.
Qualcuno, in spiaggia si sta allontanando facendo quel gesto a verso di cacciavite sulla tempia che ha un suo preciso significato, altri si stanno toccando gli attributi, qualche signora dice che proprio ora che è diventata capufficio o dirigente proprio non le piace questa prospettiva.
I ragazzi e i bambini mi guardano e restano senza parole, forse pensano che sono pazzo o che l’ho sparata grossa.
Il futuro? Scrivere un romanzo, ci vuole tempo e solitudine. Oppure. Oppure fare il ristoratore ad Oslo, o a Milwakee, oppure in qualche città della Cina che non hanno ancora costruito ma che tra sei giorni sarà già lì, con cinque milioni di abitanti, le macchine e tutto il resto, e cucinare pasta coi ricci, sarde a beccafico, spatola impanata, polpette col sugo di estratto, e cassate e cannoli da farci venire il diabete, a chi se le mangia. E sperare che i  miei figli (ops, il miei non è da intendersi in senso possessivo, ma solo attributivo) ci restino per un po’, in quelle città, e non mi costringano a lasciare il ristorante così presto, che poi ve lo immaginate di entrare in un ristorante all’estero che si chiama “Quattru seggie- sapori delle Madonie” e poi scoprire che lo
gestisce un norvegese, un messicano americano o un cinese?