giovedì 30 dicembre 2010

duemilaundici


Potrebbe essere un anno sensibilmente migliore del 2010, se...

Potrebbe essere invece drammaticamente peggiore di tutti quelli che abbiamo vissuto finora, se...

Sarebbe bello ringiovanire, arricchire, vedere enfatizzato il proprio fascino, tanto da diventare insopportabilmente affascinanti, se...

Sarebbe carino che il vicino rompipalle, il collega nocivo, il padrone del cane che vi caca davanti al portone si trasferissero su altro pianeta, se...

Vi auguro una ampia dose di culo, pazienza, fortuna, miglioramento della vista e dell'udito, potenziamento delle capacità sessuali, forza di persuasione, senso di orientamento, amore, dimagrimento o ingrassamento a scelta, che il vostro compagno o la vostra compagna acquisiscano la caratteristica di anticipare sempre i vostri desideri, anche quelli insulsi o capricciosi, così imparate ad essere capricciosi o capricciose.

Insomma, auguri.

Antonio


sabato 4 dicembre 2010

basso volume


Girò per i viali tristi di Pineta Marittima per più di mezz’ora, poi finalmente trovò la stradina, dove c’era la villetta di Giulio.

La sera prima aveva sentito Giulio, e l’amico gli aveva chiesto se, giacché tornava a Genova in macchina, avrebbe fatto una deviazione per lui. C’era da recuperare una valigetta, niente d’importante diceva Giulio, solo che la moglie lo stressava dicendogli che serviva a casa.


E ora aveva appena finito di esplorare la triste geografia invernale di un paesino di villette e stabilimenti balneari, privo di vita, come un cetaceo spiaggiato.

Parcheggiò l’auto sotto un platano, dal quale pendevano poche foglie di un marrone stecchito, spense l’autoradio, che aveva tenuto a basso volume tutto il tempo del viaggio, piovigginava e non voleva andare più veloce di quanto necessario, del resto il blues lento di Eric Clapton non invitava certo a premere il pedale sull’acceleratore.

Frugò nel cassettino portaoggetti, trovò le chiavi che gli aveva dato Giulio, rimpianse il comodo e tiepido abitacolo dell’auto, prese l’ombrello e s’infilò tra le gocce di pioggia nell’umida mattinata di Pineta Marittima.

Il catenaccio che chiudeva il cancello fece un po’ di resistenza, prima di scattare, gli fecero male le dita, quasi si bloccarono, per il contatto con il metallo bagnato e freddo, pochi passi sul vialetto di brecciale biancastro, ricoperto di foglie accartocciate, e fu sulla soglia.

Si sentiva a disagio, estraneo, osservato, con una strana eccitazione; si voltò “mi sento osservato da quello stupido nano da giardino”, fece una risatina isterica e aprì la porta.

“L’interruttore generale lo trovi a destra della porta d’ingresso” aveva detto Giulio, “non ti scordare di staccarla, la luce, quando te ne vai, altrimenti ti addebito le bollette” aveva aggiunto sogghignando.

Si accese un lampadario al centro della stanza, una misera lampada da venticinque candele, poi si sentì anche il compressore del frigorifero che si avviava con una specie di brivido metallico, l’aria era quella greve di una casa chiusa da cinque mesi, alcuni pesciolini d’argento scapparono a rintanarsi dietro i mobili.

“Devi aprire l’armadio della stanza da letto, la valigetta la trovi lì, appoggiata sul ripiano centrale”.

Ripassò mentalmente le indicazioni fornite da Giulio, aggirò il letto matrimoniale che era stato coperto da un foglio di cellophane, aprì l’armadio e vide la valigetta.

Vide anche un costume da bagno rosa, che sicuramente era di Nora, la moglie di Giulio, e se la immaginò per un istante, abbronzata, sfilarsi lo slip e mostrare la forma bianca del costume, in contrasto con il resto della pelle dorata.

Aveva spesso posato lo sguardo sui quarti posteriori di Nora, ma la libidine era mitigata dal fatto che si era imposto di non elaborare fantasie fornicatorie sulle mogli degli amici, almeno su quelle che l’avevano mai provocato; come invece era successo con quella stronza della donna di Sergio, il suo collega d’ufficio, che un giorno, in quella stessa villetta si era tolta la parte di sopra del bikini e gli aveva sfacciatamente chiesto se gli piacevano le sue tette nuove. Certo che gli piacevano, e le avrebbe anche volentieri toccate, e già sentiva movimenti sussultori dentro il boxer da bagno a fiori, quando Sergio dal giardino aveva gridato “ Elena, vieni fuori, che sono arrivate le pizze!”.

Scacciò con un gesto della mano il film fastidioso che scorreva davanti agli occhi della mente, allungò il braccio e prese la valigetta, una di quelle da fotografo in alluminio goffrato, massiccia ma leggera allo stesso tempo.

Ritornò all’ingresso, fece scattare l’interruttore generale sulla posizione di off, la pompa del gas del frigorifero emise un rantolo, l’oscurità si riappropriò della villetta, fino all’estate successiva.

 

Il nano da giardino lo guardava con il suo sorriso deforme, “ che cazzo ridi, che sei pure nano, e condannato a startene fuori con questo freddo che prima o poi ti spaccherà la vernice” pensò mentre si avviava verso la macchina.

Chiuse il cancello, il catenaccio scattò, aprì lo sportello lato passeggero posando la valigetta, girò attorno alla macchina, mise l’ombrello sul sedile posteriore, si sedette.

Allacciando la cintura lanciò uno sguardo alla valigetta metallica “Chissà che cosa c’è di così importante dentro” si disse “sarà sicuramente chiusa a chiave…”.

Riaccese l’autoradio, sentì il cd che ripartiva dentro il lettore, infilò la chiave nel blocchetto di accensione, mise in moto, spense subito dopo.

“Chissà che cosa può esserci di tanto importante qui dentro, da spingere Giulio a chiedermi di fare questa deviazione”, e sfiorò con la mano il coperchio di alluminio.

Sentì di nuovo la strana eccitazione di prima, “Ora la apro” disse ad alta voce.

Alzò istintivamente il volume dell’autoradio, mentre Tori Amos cantava elettrica “I’m not your senorita… I’m not from your tribe…”, provò le serrature, che scattarono immediatamente, “Cazzo, allora non siete chiuse a chiave…”.

Sollevò piano il coperchio, all’interno la gommapiuma color antracite era stata sagomata per contenere alcuni oggetti, che non riconobbe subito.

Un arsenale di falli di gomma in diversi colori e misure, un paio di manette, una pistola, alcuni altri piccoli affari, per i quali era per lui difficile decifrarne il possibile impiego.

Restò alcuni secondi con il fiato sospeso, poi allungò la mano.

“Ecco, come si diverte quel perbenista di Giulio con quella santarellina di Nora”.

Prese le manette, erano di vero metallo, fredde e minacciose. Le rimise subito nella valigetta.

Intanto aveva ricominciato a piovere.

Guardò la pistola, coricata sul fianco, sembrava finta, “sarà sicuramente una pistola giocattolo”, la estrasse dal vano, dove era incastonata, la sentì subito pesante e molto reale.

“Una pistola vera, gioca pesante il mio amico Giulio”, sfilò il caricatore da sotto il calcio, l’ogiva del primo proiettile occhieggiava cattiva, rimise il caricatore a posto.

L’eccitazione di prima aveva avuto un deciso incremento dopo l’esame del contenuto della valigetta.

Guardò l’orologio, “Ho ancora tempo, magari riesco anche a divertirmi con questa roba, a Genova arriverò lo stesso se proseguo sulla statale, invece di prendere subito l’autostrada”.

Chiuse il coperchio della valigetta, rimise in moto la macchina, guardò nello specchietto il ghigno gelido del nano nel giardino che si allontanava, accelerò e si diresse verso la statale.

Per un tratto la strada seguiva la costa, con il nastro grigio della spiaggia deserta, e le onde che si frangevano annoiate, un panorama di mare d’inverno, in assoluto contrasto con il suo stato d’animo attuale.

Arrivò all’incrocio, dove la provinciale s’immetteva nella statale, si fermò allo stop, lasciò transitare un furgone con un grande pennello dipinto sulla fiancata, ripartì sgommando.

“Tra qualche chilometro, vediamo chi incontro” pensò mentre guidava sulla statale semideserta, continuava a piovere piano, e le spazzole del tergicristallo battevano una cadenza lenta, accordata con il ritmo della musica che usciva, di nuovo a basso volume, dagli altoparlanti sugli sportelli.

A sinistra il mare lontano, a destra la campagna bagnata, i cartelloni pubblicitari sbiaditi, superò un distributore di benzina chiuso, proseguì costeggiando adesso la pineta.

Mise la freccia a destra, rallentò e si fermò in una piazzola di sosta. Attivò l’alzacristalli elettrico lato passeggero, una testa bionda s’introdusse nell’abitacolo, “ciao bello, scopare in macchina 30 euro, se andiamo al motel, ti faccio divertire e mi dai 60 euro più la camera”.

“Sali” disse lui scostando la valigetta sul sedile posteriore della Mondeo, “facciamo presto, niente motel”, la ragazza si accomodò sul sedile e abbozzò una specie di sorriso.

Puzza di fumo e di sperma, pensò lui rimettendo in moto.

“Di qua, gira di qua” disse la ragazza, “poi ti fermi vicino a quella baracca, è tranquillo”.

Seguì le indicazioni, spense il motore dell’auto, slacciò la cintura di sicurezza.

La ragazza si stava sfilando il collant e gli slip, poi allungò le mani verso di lui.

“aspetta”, disse, “aspetta, voglio che facciamo una cosa diversa”.

Lei lo guardò, con gli occhi pieni di sospetto, mentre lui rovistava con le mani dentro la valigetta, da cui estrasse un cazzo oversize di gomma trasparente.

“Voglio guardarti mentre giochi con questo, ti pago lo stesso, non voglio scopare adesso”.

La ragazza lo guardò schifata, non prese l’oggetto che lui le tendeva, la situazione si stava cristallizzando in una specie di natura morta con cazzo di gomma.

“Con quello ci fai giocare tua moglie, io non ci sto, dammi i soldi, ti faccio un pompino che te lo ricordi per un anno”.

Lei non ebbe il tempo di aggiungere altro, perché vide l’occhietto nero e crudele della pistola che la scrutava.

“Non fare tante storie, ti pago, fammi vedere come fai e poi ti lascio andare”, disse lui mentre in una mano teneva la pistola e nell’altra il cazzo di gomma.

Una goccia di sudore gli colò lentamente dalla fronte sulla guancia poi sul collo della camicia.

Lei tentò di scendere dalla macchina, con le mutande ancora abbassate, ma non fu sufficientemente veloce, non tanto da scansare i due colpi di pistola che la raggiunsero alla spalla, e tra le costole, non tanto da evitare di sentire lui che diceva “hai fatto male, carina, a dirmi di no, non dovevi dirmi di no”.

Lui scese dalla macchina, girò da dietro per andare ad aprire lo sportello lato passeggero, ancora rintronato dal botto dei colpi nel chiuso dell’abitacolo.

Scostò lo sportello, la ragazza cadde sulla sabbia con tutto il tronco, lui la tirò dal collant che era rimasto semiabbassato, divincolò le gambe dall’abitacolo, la trascinò per un paio di metri fino alla baracca, la striscia lasciata dal corpo sulla sabbia era venata da un segno rosso vivo.

Le orecchie gli fischiavano, la strana eccitazione stava sbollendo, risalì in macchina, rimise a posto la pistola e il cazzo di gomma, chiuse la valigetta, innestò la retromarcia, ritornò sulla statale.

Prese il telefono cellulare, quando Giulio rispose, mise la radio a basso volume. 

sabato 13 novembre 2010

il giorno che





(foto di medicineman)














Dovrà essere un pomeriggio. O meglio, spero che sia un pomeriggio. Il pomeriggio di un giorno d'autunno, quando il respiro dell'estate ancora riscalda le giornate, dalle mie parti. E regala ai pomeriggi bagni d'oro, e ai tramonti oro fuso, e tepore, non caldo, non freddo. Non voglio molte persone accanto, solo mi piacerebbe che chi ci sarà, l'avrà fatto per sua libera scelta, non per pietà, ma per compagnia.  Allora, spero di essere in grado di decidere, e capire, e che chi mi sarà vicino allora possa fare in modo che il mio desiderio sia trasformato in realtà. Non voglio che accada di notte, mentre sto dormendo; voglio avere gli occhi aperti, e capire cosa sta succedendo, o almeno spero che sia ancora in grado di capire cosa sta succedendo. Il giorno che morirò.




martedì 19 ottobre 2010

non aprite quella porta


Non apritela. La porta che conduce al focolare, all'angolo intimo e privato delle famiglie italiane.



Potreste trovarci, dietro una rispettabile facciata, fatta di lavoro e domenicale preghiera, il mostro.



Non solo l'orco, anche la strega, il molestatore, l'incestuoso, il pervertito.



Uomini violenti, donne succubi, per paura, per debolezza, per mancanza di coraggio.



Dentro ogni casa vige il patto familiare, quello che succede e' permesso, e non va raccontato all'esterno.



Il popolo, quello che si abbevera avidamente alle notizie vomitate quotidianamente dai media sui delitti domestici, il popolo ascolta, legge, approfondisce, cerca contatti con la propria realta' familiare.



Cerca la faccia del vicino, del conoscente maiale, del parrino porco, della signora cosi' perbene ma cosi' buttana, guarda cos'ha combinato.



Non aprite quella porta, i vermi escono dalla putrefatta realta'familiare e si riproducono.



Ma, si sa, i media campano di pubblicita', non di verita'. E lo spettatore-consumatore, dopo essere stato destabilizzato dall'orrore quotidiano, cerchera' linimento alla propria angoscia nel consumismo.

 



I morti ammazzati sostengono il pil.


mercoledì 13 ottobre 2010

scambio vantaggioso

Però, mi viene un'idea.
Siccome i trentatre minatori rimasti bloccati lassotto in Cile a poco a poco stanno prendendo l'ascensore e stanno tornando su, lassotto, appunto resterà un sacco di spazio sprecato. E un sacco di lavoro da fare.
Allora, prendiamo quei trecento delinquenti di serbi che ierisera hanno fatto bordello a Genova e graziosamente li facciamo scendere, con l'ascensore, proprio in quella miniera. Ah, si divertiranno di certo.

giovedì 23 settembre 2010

new brand item


Tutto pronto per il lancio, i negozi son stati riforniti nella massima sicurezza e segretezza. Gli insiders sono già all'opera, e le azioni della società hanno raggiunto livelli impensabili, muovendo enormi flussi di capitale che serviranno alla mia prossima impresa..



i_motion ha fatto il vuoto tra la concorrenza, e contiene il nucleo del prossimo prodotto.



Oggi lanciamo i_love, periferica personale che instaura condizioni di amore, utilizzabile in modalità self, other, all, personalizzabile per egoisti, altruisti, cultori dell'amore universale.



Cosa dice, i cinesi? Quelli li abbiamo lasciati indietro, non sono in grado di seguirci; dopo il fallimento planetario della loro ultima copia, il my-pad, si sono arresi. Hanno dovuto comprare i nostri processori emozionali, e li ho costretti a vendere anche i loro prodotti con il nostro marchio.



I-love è un accessorio indispensabile, si potrà usare anche da soli, davanti lo specchio; se avete relazioni col pubblico, con parenti, con amici o solo volete sentirvi più amati, la soluzione è i-love.



Il prossimo progetto? Beh, glielo racconto, questo lo lanciamo il prossimo mese, i beta tester sono soddisfattissimi. I-god. Si, si ha capito bene. I-god. Abbiamo previsto quattro versioni base, i-jesus, i-buddha, i-mecca ed una per gli indiani, personalizzabile con l'ologramma della divinità prescelta. Le posso anche dire che ci sono arrivate richieste per realizzare una versione per Cuba, i-fidel si chiamerà. Ora devo lasciarla, il mondo aspetta, ha bisogno d'amore. Se passa alla reception, c'è un demo per lei.


martedì 7 settembre 2010

la geologia è materia estiva (prima e seconda parte)

Ieri ho depositato la prima parte sul mio profilo Facebook. Chi se la fosse persa, la recupera qui. Ecco.


 Il fiordifragola, il camillino, raramente il lemarancio. La cocacola nella bottiglietta di vetro, con le bollicine che si sentivano distintamente nel palato, una dopo l’altra, seduto col nonno al tavolinetto di metallo del Giardino Inglese.
La prima bicicletta, ero malato, lei era una Olmo rossa, passarono alcuni giorni prima che potessi usarla. I materassi arrotolati prima di partire per le vacanze, la fiat 600 grigio fumo, poi la fiat 1100 D, l’autostrada che allora si prendeva solo sul continente.
Fermati, se già condividi qualcosa, nella geologia dei tuoi ricordi, continua a leggere, altrimenti sarà tempo perso. E per me, che il tempo sta accelerando, anche troppo per i miei gusti, non è mia intenzione farti perdere tempo.
I nonni, non ne ho conosciuti molti, e tutti quanti erano irrimediabilmente vecchi, e privi di attrattiva per un bambino. Nel senso che o erano malati, o molto malati, o avevano altro da fare.
Le costruzioni Plastic City Italocremona, il Lego che era pure meglio ma costava di più, era un prodotto d’importazione, quelle costruzioni fatte di cubi e parallelepipedi di balsa colorati come se fossero pezzi di muro, o finestre e porte: ne venivano fuori case precarie.
La cinepresa 8 mm, poi quella in super 8, le pizze dei cartoni animati montati a casa da papà. Il visore stereoscopico, lo mettevi davanti agli occhi, abbassavi la levetta nera sulla destra e viaggiavi dal Grand Canyon alla Piazza della Concordia, e poi ti sembrava di esserci, in quel posto. Il corriere dei piccoli, poi pomposamente diventato corriere dei ragazzi, ma già ero abbastanza ragazzo per passare a letture alternative. Cassati, non mi piacevano proprio, i fumetti noir e quelli western e pseudo western, passai direttamente a Linus, bello grande, coi fumetti americani che parlavano di politica, erano sarcastici, satirici e sardonici, ma allora questi aggettivi non li conoscevo, mi piacevano e basta.
 Poi, la seconda bicicletta, a lungo sognai una Graziella cross, col cambio a cloche sul telaio, la sella lunga e lo schienale, ed uno dei nonni si era pure offerto di comprarmela, però poi papà mi fece comprare quella normale, di Graziella, bianca che si poteva anche piegare; una bici un po’ finocchia, se mi passate l’espressione, e con la quale ci si poteva ammazzare di fatica ma con le sue ruotine sempre troppo lenta andava.
Carosello, e i cartoni animati con personaggi improbabili che venivano dall’est europa, e poi Alvin, Braccobaldo, la domenica pomeriggio Disneyland, coi cartoni di Paperino e Topolino, documentari sulla vita degli animali, e rappresentazioni dell’America che andavano oltre il surreale, diventando metafisiche.
La spesa alla Standa, da trasportare nei sacchi di carta marroncino a righe, i pattini a rotelle allungabili, con una specie di chiavetta che dopo avevi sempre le mani sbucciate. L’odore delle stagioni che cominciava con gli odori dei tessuti inamidati dal sarto: a fine agosto le misure per i pantaloni di velluto, all’inglese, corti al ginocchio coi bottoncini di lato, le scarpe con la suola di para, i maglioni che saltavano fuori dalla naftalina. Il maxicappotto, il mio era un improbabile mongtomery lungo fino alla caviglia, poi chiesi alla mamma di accorciarlo, talmente era ridicolo.
L’ambra solare, l’ombrellone a righe verdi con i bastoni di legno, quei costumini da bagno larghi che scappavano via tutti gli ammennicoli, tanto in spiaggia eravamo quattro gatti.
Il gommoncino Pirelli gonfiabile, che a fine estate si riempiva di borotalco e si conservava nella sua sacca blu
(esiste ancora, credo). E la luce dorata del tramonto, quella sempre mi è piaciuta, anche se adesso ha un gusto un po’amarostico, quando vedo che il sole si sposta sull’orizzonte, e finirà per tramontare dietro la rocca di Cefalù, mentre prima si tuffava arancione nel mare, significa che l’estate sta finendo. E sorprendermi a domandarmi quante ancora avrò la fortuna di vederne, e fino a quando potrò tuffarmi e fare quelle quaranta bracciate nel mio stile indeciso, che comunque mi porta a quella distanza dalla riva sufficiente a non farmi più sentire pastina nel brodo salato del mare basso-dove-si-tocca.


Il mangiadischi ed i quarantacinque giri che i cugini più grandi (spesso molto più grandi di me) mi regalavano. Antoine, Silvye Vartan, Celentano, Caterina Caselli. La prima radio, una Sanyo a transistor, tascabile che la potevo portare ovunque, e poi quella che mi mettevo sotto al cuscino, la notte, per ascoltare quella musica pop e poi rock che durante il giorno non trasmettevano. Allora c’era solo la rai, col primo, il secondo ed il terzo canale radiofonico, che però era roba per secchioni, di quelli che sapevano chi era Tchaichowskij. Già, chi era?
Il radioregistratore Grundig, quando arrivò mi ricordo ancora la prima canzone che ci registrai al volo, colta dalla radio, era Minuetto di Mia Martini, che ci volete fare, a tredici anni mi piaceva (e penso che mi piacerebbe ancora).
Il Pongo, i lampostil, la gomma-pane e poi il Das, con le sue brave vernici per trasformare in minime opere d’arte quegli ammassi di argilla auto indurente.
Le figurine dei calciatori, roba da idioti diceva papà, ed infatti non ne completai mai un’album; mi vendicavo ritagliando le sagome delle automobili dai quattoruote che lui comprava, allora il listino delle auto era di un paio di pagine appena, e tutte le foto rigorosamente in bianco e nero.



Due pagine di ricordi, e saranno meno dell’uno percento. E’ che quest’anno, in spiaggia, la solita spiaggia, sempre la stessa da cinquant’anni (cinquanta? Così tanti?), mancano un sacco di facce, di volti noti: che qualche anno fa a chiedere ti sentivi rispondere che avevano cambiato spiaggia, oggi ho paura a chiedere. Che il caso migliore è che quel signore, il papà di amici più giovani di te, bambini allora, padri di bambini adesso loro stessi, che quel signore dicevo prima abbia impiantato un pacemaker e che preferisca la canasta alla spiaggia. Che per altri è meglio non chiedere, tanto prima o poi me lo verranno a dire.
Il futuro? Ha le stimmate ai piedi: quelle che mi sono procurato girando per una Milano asfissiata a fine luglio, nel tentativo-miseramente fallito-di trovare un appartamento in grado di accogliere (bozzolo di sicurezza, utero confortevole, stanze per studiare) il mio secondogenito che ha deciso di diventare ingegnere. Ammilano.
Lo guardo e me lo dico “sono i tuoi ultimi giorni d’infanzia, baby. Goditeli, perché tra cinque anni o poco più non avrai più tempo di farlo, se tutto va per il verso giusto verrai travolto dalla vita, diventerai ingranaggio, comincerai a guadagnare, e in Sicilia ci tornerai, spero, solo da turista, portandoti dietro dei colleghi a cui fare conoscere la bellezza di questa terra, e dopo anche una donna, ed infine dei picciriddi che parleranno…che parleranno come? Inglese, tedesco, spagnolo?”.
Lo guardo e non glielo dico, lo scoprirà da solo.
Il futuro? E’ un dottorato di ricerca in Francia, dice il primogenito, e dopo? E dopo?
La Sicilia? Tornateci solo da turisti, dico io. Solo da turisti, che non abbiamo lingue sufficientemente lunghe e raspose per leccare culi e poi raggiungere l’insperato traguardo di fare l’operatore di call-center laureato o il precario a vita.

 
 


 
 


La Sicilia? Scherzando dico agli amici, che vogliono forse sentire la mia opinione (uno che scrive libri ha quasi sicuramente un’opinione da condividere, spesso cambia da un giorno all’altro, ma non ha importanza) la Sicilia dovrebbe essere ricoperta nottetempo da una cupola di vetro, senza uscite, e sotto questa cupola dovrebbero restarci tutti i siciliani, me compreso (e anche voi, amici sulla spiaggia, inutile che ridete se ancora non avete capito dove voglio andare a parare), e dopo aprire il gasdotto che viene dall’Algeria, per tre giorni, giusto il tempo di sterminarci tutti, i Siciliani. Tutti. Politici, parrini, intellettuali, mafiosi, impiegati del comune, dipendenti dell’Ato, burocrati, professori, panellari, ristoratori, parcheggiatori abusivi, figli di buttana, scrittori, giornalisti e invalidi.
E dopo tre giorni, fare arrivare alcune migliaia di islandesi, canadesi, giapponesi, gente di buona volontà, con le ruspe e i cartelli. Con le ruspe per buttare a mare i cadaveri dei siciliani (quelli scampati dovrebbero avere l’ostracismo al ritorno, assoluto) per fare ingrassare i tonni (si dice che i tonni mangino volentieri i cadaveri degli extracomunitari andati a picco nel canale di sicilia) e i cartelli dove dovrebbe essere scritto “Sicilia, paradiso
terrestre per i turisti: vietato l’accesso a tutti quelli che vengono senza amore”. Niente fabbriche, niente uffici, niente assessorati e assessori. Solo le spiagge, le campagne, le montagne, i vulcani, i tramonti, le pecore, la ricotta, la pasta coi ricci, il profumo della zagara.
Qualcuno, in spiaggia si sta allontanando facendo quel gesto a verso di cacciavite sulla tempia che ha un suo preciso significato, altri si stanno toccando gli attributi, qualche signora dice che proprio ora che è diventata capufficio o dirigente proprio non le piace questa prospettiva.
I ragazzi e i bambini mi guardano e restano senza parole, forse pensano che sono pazzo o che l’ho sparata grossa.
Il futuro? Scrivere un romanzo, ci vuole tempo e solitudine. Oppure. Oppure fare il ristoratore ad Oslo, o a Milwakee, oppure in qualche città della Cina che non hanno ancora costruito ma che tra sei giorni sarà già lì, con cinque milioni di abitanti, le macchine e tutto il resto, e cucinare pasta coi ricci, sarde a beccafico, spatola impanata, polpette col sugo di estratto, e cassate e cannoli da farci venire il diabete, a chi se le mangia. E sperare che i  miei figli (ops, il miei non è da intendersi in senso possessivo, ma solo attributivo) ci restino per un po’, in quelle città, e non mi costringano a lasciare il ristorante così presto, che poi ve lo immaginate di entrare in un ristorante all’estero che si chiama “Quattru seggie- sapori delle Madonie” e poi scoprire che lo
gestisce un norvegese, un messicano americano o un cinese?
 


domenica 25 luglio 2010

da zero a mille milioni

Una specie di spiegazione, una scusa, un commiato. Il web ha offerto possibilità di comunicare che prima erano impensabili, o impossibili. L'evoluzione è stata progressiva, si è passati dalla comunicazione tra singoli (si usano ancora le chat?), a quelle in cui si può proporre le proprie idee a pochi ( o a nessuno...), cioè quelli che passano a leggere un blog. Infine, arriva facebook. Blah, faccialibro? Però, se si vuole comunicare a tanti, a tantissimi, senza bisogno che questi tantissimi ti vengano a cercare, facebook è uno strumento interessante, ed a quello mi sono convertito. Chi vuole continuare a leggermi, mi troverà cercandomi per nome e cognome: antonio musotto del 1960 ;-).

Anzi, passate a leggervi questo : http://www.facebook.com/home.php?#!/note.php?note_id=414716282930


bye bye, babies.

venerdì 28 maggio 2010

respiro lento

DSC006630001












Come quello di questo blog, ridotto ad un post al mese, se va bene.
E' che tutto il resto va troppo veloce, e sfugge anche alla mia comprensione.
Arrviveranno giorni più quieti? Forse, chissà.

mercoledì 28 aprile 2010

il portamangiare




 



Ogni pomeriggio ci trovavamo al chianu, uno portava il pallone, se ce l'aveva. Altrimenti si pigliava una buatta di pomodori pelati sfondata, una mezza cucuzza, una palla di stracci sfardati. E diventavano pallone.


Io, sempre nella squadra di Piero giocavo. Quando si faceva il tocco a pari miei e dispari tuoi, Piero per primo si pigliava a me. Umbertino è mio, e mi spostava da una parte; capace che eravamo dispari, e allora lui diceva, siccome mi sono preso Umbertino, quello in più ve lo pigliate voi. Io ero nico, ma correvo, e facevo per tre. Tanto vincevamo lo stesso. Poi, un'estate Peppe, che abitava a Bologna, tornò con la novità che si poteva fare a porta romana, un solo portiere, e due squadre, una bella novità, che veniva meglio quando eravamo dispari.


In porta ci finiva sempre Pinuzzo, che era sciancato e non poteva correre, e qualche volta Mirella, la sorella di Peppe, che dice che era sua sorella ma cafuddava come un masculo, se serviva di alzare le mani. A me, quella mi era sempre sembrata un maschio con la gonna, e il dubbio mi restò a lungo. Un'estate non vennero al paese, né Peppe e manco Mirella; la gente diceva che avevano buttato il padre in collegio, perchè aveva sparato a uno. Ma che significa collegio? Non si chiamava galera?


Comunque non vennero più, per molte estati, e quando ripigliarono a venire al paese nel mese di agosto passavano sempre arraso al muro, e al chiano non si fermavano.


 


Lo sapevo, lo sapevano tutti che la mamma di Piero non stava bene. Quando passavo davanti alla sua casa lei era sempre assittata in una seggia di legno, col gatto sotto, e spicchiava fave e piselli, se era maggio, o tagliava i pomodori per farli secchi se era agosto,e mi chiamava, Umbertino, vieni vieni da zia. Io m'avvicinavo, ma mi faceva impressione, aveva la faccia mezza caduta, anche se rideva pareva che piangeva, e un poco di saliva ci scolava, che se l'asciugava con un fazzoletto che subito ammucciava nella sacchina del vestito. Mi faceva una carezza, e io mi scantavo, e un poco mi schifiavo, e poi per fortuna affacciava Piero e ci dicevo, Piero, amuninni al chiano, c'aspettano per la partita.


Però da casa sua usciva sempre un ciavuru, un profumo di roba da mangiare, e Piero me lo diceva, oggi a'mamà mi cucinò il coniglio, stasera ci sono le patate al forno con le cipolle, e a me mi venivano i rumori allo stomaco, che qualche volta ci sarei rimasto a mangiare, pure che sua madre mi faceva impressione, con quella faccia caduta e la bava che ci scendeva sul mento.


Invece a casa mia, che eravamo nove fratelli, e quelli grandi travagghiavano in campagna ci toccava un piatto funnuto di pasta e fagioli ogni sera, e a me se mi andava bene, nel mio piattino ci finiva la pasta rotta con tanticchia di acqua di fagioli.


Umbertino è nico ma crescerà, pigliati stò pezzo di pane diceva Paolo, mio fratello maggiore, e io me lo mangiavo, che quando uno è nico, sempre pititto ha.


 


Un pomeriggio, faceva un caldo che pareva che le pietre del chiano erano state messe nel fuoco, aspettavamo a Piero per giocare a pallone, a Salvuccio ne avevano regalato uno come quello che usavano i calciatori veri in televisione, a spicchi bianchi e neri, che prima di usarlo dovevamo passare da Santuzzu u'falegname, Salvuccio pigliava dalla tasca una specie di cannuccia di ferro, l'attaccava prima al compressore e poi al pallone e quello si gonfiava, e quando era bello gonfio a tirarlo di destro ci sentivo soddisfazione,  e diventava veloce.


Però Piero non arrivava, a un certo punto dissi che l'andavo a chiamare io a casa, e mi feci una corsa di quelle, che è vero che ero nico, ma ero veloce.


Davanti alla porta la seggia non c'era, e manco il gatto. E la porta era chiusa. Piero Piero mi misi a chiamare, poi s'affaccio nella vanedda la gnà Giulietta, e mi disse Umbertino basta non abbanniare più. Poi uscì dalla porta, se la portarono all'ospedale la mamma di Piero, disse la gnà. E Piero dov'è, chiesi io, poi torna, andò in campagna a chiamare a so zio. 


Non ce n'era ciavuru di mangiare, allora passai al chiano e ci dissi agli altri che non si giocava.


Me ne tornai a casa, e mentre mia madre mi metteva la minestra nel piatto chi chiesi dov'era il portamangiare, quello d'alluminio col tappo a vite che si portava mio padre quando andava al cantiere della forestale. A che ti serve, rispose mia made, niente, a niente ci dissi io.


La sera arrivò la notizia che la zia Amelia, la mamma di Piero, era morta, e che l'indomani la portavano al paese per il funerale.


Prima di coricarmi, cercai nella dispensa, dietro alla burnia con le olive salate trovai il portamangiare.


Me lo misi sotto al cuscino, e all'angelo custode ci dissi che me lo doveva fare trovare pieno, che ci dovevo portare il mangiare a Piero, che mi sceglieva sempre per la sua squadra, ora che la sua mamma non ci poteva cucinare più.


 


giovedì 15 aprile 2010

piccola ma efficace


Piccola ma efficace recensione del libro condominiale, uscita domenica 11 aprile su "la repubblica" edizione di Palermo. (eppoi, incredibile, per la seconda settimana consecutiva stiamo nella top five).
L'ha scritta Antonio Calabrò, uno che ha fatto recentemente i conti col proprio passato nel libro "cuore di cactus", lettura adatta ai siciliani, a quelli che si sentono siciliani ma non capiscono perchè, a quelli che siciliani non sono ma vogliono provare a capirci qualchecosa, di questo popolo strano, dalla spiccata tendenza all'autodistruzione.


recensione calabro











non si legge niente, non c'è bisogno che me lo dite, per cui riporto il testo qui di seguito.
"Antonio Calabrò, quando niente vuol dire tutto"
Niente accade. Niente. E per darne testimonianza, Elio Carreca, Sandro La Rosa e Antonio Musotto scrivono 244 pagine di storie in Sicilia, per l'editore Qanat, che fa benissimo a pubblicarle-dice Antonio Calabrò-Tante parole per "niente". Già. Perchè, a dispetto del titolo (i siciliani si divertono a stupire, con le contraddizioni), quel "niente" è fitto di gesti, emozioni, rabbia, rimpianti, cibo, assessori, burocrati, letterati, parroci, buttane, giornalisti e di tutto il resto dell'umanità irrequieta che popola l'Isola amata e detestata. Niente da fare, molto da scrivere,
Meglio che limitarsi a mugugnare.
(Adriana Falsone)

domenica 4 aprile 2010

niente accade. niente. Accadde, il 28 in libreria

Il 28 marzo, a Palermo, accadde che alla Libreria Modusvivendi, in una tiepida mattinata di primavera, ci siamo incontrati, mescolati, salutati, presentati. C'erano anche gli sponsor e i librai, e poi anche noi tre, già Fulminati.niente accade 3niente accade 1niente accade 2



martedì 9 marzo 2010

tre date

ecco, le prime tre date per vedere e sentire gli autori di "niente accade, niente - storie in Sicilia".



19 marzo, ore 21,30 Caffè Letterario Sotto il Mare, Trapani



20 marzo, ore 17,30 B&B "al giardino dell'alloro" vicolo san carlo 8, Palermo



28 marzo, ore 9,30 Libreria Modusvivendi, via quintino sella, Palermo, breakfast letterario



noi ci saremo

giovedì 18 febbraio 2010

lunedì 8 febbraio 2010

mi avevano avvisato



 



E io che sono solitamente impermeabile ai consigli, non li ho ascoltati. E dopo più di tre ore, mi sono detto che ho fatto bene
a non ascoltarli. Mi avevano avvisato, i soliti cinefili snob dal sopracciglio tremulo. Non andare a vedere Baaria. E non ci sono andato, anche perchè per ora mi ha preso una cinepigrizia indescrivibile. Però. Però l'ho noleggiato questo weekend, e me lo sono sorbito, diviso in due tranches, tra sabato e domenica. Dico subito che lo rivedrei, che ho visto la versione in dialetto siciliano, e che è piaciuto non solo a me, ma anche alla medmoglie, la quale ha un parametro di valutazione inequivocabile: se il film non le piace non è che si incazza o protesta, semplicemente si addormenta. E la sua palpebra è calata inesorabilmente su pellicole che invece pensavo le sarebbero piaciute. Durante Baaria, la palpebra non è scesa, anzi.

Perchè ci è piaciuto; non si può dire che la trama sia avvincente, anzi, però il modo con cui è raccontata, quello ci ha preso. E poi è un film inequivocabilmente siciliano, questo ne sono certo.



In subordine a questa informazione, visto che si parla di cinema, e visto che si vede una mucca, il progetto
vadopazzoperlevacche va avanti, cliccare il link per scoprire a che punto è.  

Ah, il regista cerca sponsor, questo lo scrivo.




 

lunedì 1 febbraio 2010

strano palindromo e un giorno sbagliato

 



 


Oggi, 01 02 2010. uno strano giorno palindromo, in cui sono successe cose strane, che potevano anche non succedere. Per esempio ho visto una che si è avvicinata ad una Quashai parcheggiata, ci ha guardato dentro, ho pensato che avesse dimenticato qualcosa, invece si è accosciata vicino allo sportello lato guida e col dito indice della mano destra ha cancellato la polvere accumulata. Poi si è rialzata, ha sputato sul polpastrello, se l'è ripulito sui jeans e quindi se n'è andata. Siccome sono curioso, ho attraversato la strada ed ho notato che aveva disegnato quattro cuoricini. Non credo che l'avesse fatto per via del fatto che lo sportello appartiene ad una vettura 4x4. Eppoi, avevo ancora i sensidistonici per quello che è successo ieri. Ieri.

Ieri  un amico se n'è andato, pochi minuti dopo uno scontro frontale su di una pericolosa bretella di uscita dall'autostrada. Se n'è andato anche l'altro, quello che sotto la pioggia aveva imprudentemente scatenato i cavalli bizzarri di una macchina tedesca dal carattere infido, e che poi saltando di carreggiata si è scontrato contro la monovolume dell'amico che se n'è andato. L'amico ha avuto il tempo di telefonare alla moglie ed al fratello, non so cosa si siano detti, non ho la sfrontatezza di immaginarlo, non è giusto che io lo sappia. Sabato sera, ad una cena con conoscenti comuni, avevo chiesto di lui, come se avessi avuto un presentimento. Se lo avessi interpretato, questo presentimento, gli avrei telefonato, magari dicendogli che andava incontro ad un giorno sbagliato, gli avrei detto di evitarlo. Ma si sa, il destino ti prende alla sprovvista con premeditazione, e così sia.

 

venerdì 22 gennaio 2010

musica che mi piace: Muse

 Che sia cambiato qualcosa te ne accorgi subito, basta guardare la copertina, un poliedro colorato che sembra caduto lì da un film di Kubrick, o da una cover sleeve degli Yes

Poi, dopo che il cd è scivolato nella materna slitta del lettore, attacca un brano (uprising) che trasporta una ventina d’anni addietro, quando gli Ultravox suonavano “rage in eden”, anche se poi la linea dance si sporca della voce sofferente, che è una specie di marchio di fabbrica dei Muse.

Anche “resistance”, la traccia numero due, pare passata nelle officine dei Depeche e degli Ultravox prima di arrivare nei computer dei Muse, ma “it could be wrong”. E allora, pump on the volume, spuntano tastiere, un pianoforte, una serie di percussioni galoppanti, e la voce, quella. E poi, crescendo, e poi voci ed echi da cattedrali, pop lisergico allo stato nativo. Altro che ventunesimo secolo.

Ecco arrivare, dopo una terza traccia asettica, un piano e la solita voce ispirata, sì, sono proprio i Muse; o sono iQueen? Il dubbio è forte, la costruzione sinfonica, verdiana, del pezzo, rimanda a sonorità neoclassiche, sembra quasi di vedere i baffi di Freddie Mercury fare capolino dal display del lettore cd. E quel passaggio da marcia trionfale dell’Aida? Forse i nostri hanno mangiato qualche strano fungo che li ha rispediti a palla nel passato; un pianoforte solo, un pianoforte che attacca Chopin (un notturno). Leggo il titolo del brano , nascosto tra parentesi c’è un “collateral damage” che lascia intendere che probabilmente un virus mutante si è infiltrato negli spartiti scritti daBellamy, Howard e Wolstenholme. Il passaggio di un jet sulle ultime note di piano rimette le cose a posto. 

La traccia 5 “guiding light” non può non essere un pezzo Muse, con leggera enfasi spiritualistica, e chitarre evangelizzanti, acccompagnate da una processione di percussioni, che fanno da tappeto al sermone vocale diBellamy.

Qualcosa sta uscendo veloce e acido dai box del mio fido Kenwood r-k701. E’ la mitraglia elettrica di “unnantural selection”, la traccia numero sei. Vi suggerisco di ascoltarla ben seduti, anzi legati alla poltrona, altrimenti correrete il rischio di afferrare una scopa e mimare un famoso chitarrista volante davanti allo specchio, sedotti dal ritmo seghettato e urgente. Poi, veloce come era arrivato, rallenta, ritorna sound floydiano da cattedrale gotica, ma è sempre Muse, tranquillo caro il mio fonodipendente, roba buona, da far rizzare i peli sulle braccia. No hope for fate, it’s unnatural selection. Autostrada, datemi autostrada ed un sorpasso pericoloso, arriva negli specchietti la traccia numero sette, Mk Ultra, anche questa ha nascosto uno speed ball tra i byte, accelerano sia il ritmo che le pulsazioni, bisogna aumentare il volume, e che si fotta il rincoglionito del piano di sotto, stasera i Muse suonano più forte della sua tv da cui latrano i brunivespa di regime. Altra sorpresa, nel brano numero 8, compare Saint-Saens. Anche voi, caro Camille, nel caravan stellare con i Muse? Prego, accomodatevi, ci tocca rilassarci, dopo l’adrenalina dei brani precedenti.

E anche le tracce finali hanno costruzione sinfonica, in un clima sonoro da basilica nel deserto, una microsinfonia in tre parti, che aiuta a ricollegarsi con i propri pensieri. La microsinfonia si chiama Exogenesis, e se dovesse capitarmi di girare un film di science-fiction, credo proprio che questa sarebbe la colonna sonora ideale, per la sequenza in cui il modulo di atterraggio si apre, e gli astronauti posano il loro timido piede sul suolo di un pianeta sconosciuto e crudele, dal quale probabilmente non faranno più ritorno.

sabato 16 gennaio 2010

stipendio probabile garantito

 
Carico, carico, cazzo se era carico. E il messaggio era chiaro, anzi chiarissimo.

Vuoi il lavoro? Devi eliminare fisicamente quello che per ora occupa il tuo posto, recitava il bando. Fisicamente, con tutti i mezzi. Possibilmente senza spargimento di sangue, che non si sa mai, con tutti i virus che circolano, basta sbatterlo via dal modulo di produzione, e infilarlo nel recinto dei perdenti.



Qualcuno aveva guardato il vicino di seggiola, mentre il Collocatore spiegava come prendere parte al concorso, cinquanta maledetti posti a stipendio probabile garantito, al Ministero delle Nuove Opportunità.



Non ci aveva dormito, la notte prima. Anche perchè suo padre, il vecchio maledetto, si agitava nel letto, poi si era alzato cinque o sei volte, dannato prostatico, per andare a pisciare, tirando lo sciacquone.



Cazzo, avercelo un lavoro, avrebbe potuto andare a vivere nella residenza cubicolare che il Ministero offriva a tutti i nuovi dipendenti. Una casa propria, anche se cubicolare.



Gliel'avrebbe fatta vedere lui, al concorso, come avrebbe strappato uno di quelli abbarbicati alla scrivania da troppo tempo, gente inutile, improduttiva. Era ora di dare spazio ai giovani, a gente come lui che aveva morso il freno troppo a lungo. Cazzo, se lo sarebbe preso, questo lavoro, a tutti i costi.



Non aveva dormito, la sera prima. Lo aveva saputo alle sette di sera, con l'ultima mail circolare sonora, domani verranno messi a concorso cinquanta posti in questo Ministero, urlava la mail, sono coinvolti gli impiegati del quattordicesimo piano, sezione quinta. La mia, aveva pensato l'uomo. La mia, cazzo, proprio ora che mi mancano solo due anni alla pensione, e mio figlio ancora non ha un lavoro. Passa il tempo a fumare, sul letto, invece di andare in giro e vedere di sbattere quel culo grasso e rimediare qualche soldo. Invece niente, mangiare, dormire, oziare, cagare, bestemmiare e chiedere denaro. Testa di cazzo, e se perdo il lavoro, come faremo?



Alle sette il piazzale davanti al Ministero delle Nuove Opportunità era pieno di gente, alcuni mostravano i muscoli, altri scatenavano scaramucce e risse localizzate, altri ancora fissavano un punto nel vuoto in silenzio, bestemmiando mentalmente ed attendendo che i funzionari del Collocatore aprissero le porte, e poi via, su per le scale, fino al quattordicesimo piano, sezione quinta, a cancellare dal libro paga del Ministero cinquanta parassiti improduttivi, e poter sperare in una retribuzione ed in un alloggio.



La sirena diede il via con un urlo rauco, una massa imbufalita si lanciò verso le scale (gli ascensori erano stati sigillati). Qualcuno fu calpestato, altri non riuscirono ad infilarsi nel flusso tumultuoso di quelli che erano riusciti ad arrivare alle scale, altri ancora si massacrarono di botte, dopo meno di un minuto le porte metalliche del Ministero vennero richiuse; alcune gambe e braccia restarono impigliate, i funzionari del Collocatore scesero nel piazzale dagli elicotteri, e a colpi di manganello elettrico fecero allontanare tutti quelli che non erano riusciti ad entrare nel palazzo del Ministero.

Al quattordicesimo piano, sezione quinta, gli impegati si preparavano alla resistenza. Molti di loro avevano conquistato il lavoro allo stesso modo, alcuni anni prima, e si ricordavano bene di come avevano strappato via dalle postazioni i vecchi parassiti che le occupavano.

Il rumore proveniente dalle scale si fece intenso, un rombo, poi una vibrazione sismica scossero l'ufficio, un'orda di barbari feroci invase l'open space, alcuni puntarono alle postazioni lavoro più vicine, altri si lanciarono in direzione di quelle più distanti dall'ingresso, sperando di incontrare minor resistenza.



Cazzo, ora ne acchiappo uno e lo sbatto fuori, e poi l'impiego sarà mio, pensava mentre correva verso una scrivania defilata.



Si trovarono faccia a faccia, si riconobbero. Il figlio esitò per un centesimo di secondo, il padre approfittò per spazzargli via le gambe con un calcio, poi lo legò col nastro adesivo e lo trascinò fino al recinto dei perdenti.

Testa di cazzo, disse tra i denti, non sei capace neanche di prendertelo, un lavoro.



.....................................................................................

leggetene altri, al gioco di zop



giovedì 14 gennaio 2010

Il ritardo, Rosbree, i picciriddi con la valigia e la vittima professionista





picciriddi abbaliggiati







































































































(foto di Medicineman)







 Così, neanche il tempo di riprendermi dalle vacanze, oggi mi sono ritrovato di nuovo in aeroporto. Mentre aspettavo (e poi avrei aspettato veramente tanto) che chiamassero l'imbarco del volo, ho visto passare molte persone che conosco. Alcune di loro si sono anche fermate a salutarmi, altri mi guardavano facendo un cenno con la testa, come a dire che stavano penosamente trascinandosi fino all'imbarco in colpevole ritardo, e che non potevano assolutamente sostare e scambiare qualche parola con me. Che in linea di massima, preferisco starmene seduto, evitando di stressarmi a guardare di continuo il tabellone con gli orari, e magari leggere un  libro con gli auricolari indosso.



Una specie di camuffamento che però identifichi bene che razza di persona sgradevole che sono. Uno che non vuole dare troppa confidenza al prossimo. Nel frattempo che leggevo (l'ipod non me lo sono portato stavolta, ho dimenticato di metterlo in carica ierisera), ho visto passare la coppia comica ( Ficarra&Picone, poverini, visti così in aeroporto non sembrano effettivamente comici ), sarà la terza volta che li incontro quest'anno. Alla prossima li saluto, vediamo che effetto farà. Seduti ad un paio di posti dal mio, in attesa dello stesso volo, c'erano un ragazzo ed una ragazza, diretti al Nord, al rientro alle loro cattedre di insegnante dopo la pausa estiva. Lei ad un certo punto ha ricevuto un sms, dopodichè ha cominciato a piagnucolare, versandosi addosso il miele appiccicoso della vittima di professione. Povera, misera, unica disgraziata costretta a recarsi fin nella lontana Verona per il suo incarico annuale di insegnante. Ha passato il limite delle lamentele, e così mi sono spostato di sedia.

Ho ripreso a leggere, ad un certo punto ho alzato gli occhi ed una magnifica ragazza, piena di salute e ottimismo, mi ha salutato con un cordialissimo ciao. Avrà subito capito che, visto che ormai tendo alla demenza senile, non l'avevo riconosciuta e mi ha detto, passando oltre “sono Rosbree, ti ricordi, ci conosciamo dallo spinning”. Che mi sono sentito moderatamente deficiente, oltretutto è la seconda volta che la incontro in aeroporto. E' che magari se la vedessi abbigliata da bicicletta la riconoscerei subito, invece con la divisa seria, blu e bianca, di addetta al banco dell'aeroporto, proprio non mi riesce di focalizzare. Peccato, prometto però di stare più attento. E' anche possibile che la prossima volta Rosbree non mi saluti per niente, ma non si sa mai.



E comunque, la divisa le sta benissimo. 



Mentre aspettavo, e le pagine del libro di Murakami Haruki scorrevano una dopo l'altra, anche perchè come al solito eventi imprevedibili come l'atterraggio di un ufo all'areoporto di Palermo ritardavano l'arrivo dell'aeromobile, mi sono passati davanti alcuni picciriddi viaggiatori, con la loro microvaligia d'ordinanza. Certo, ho pensato, è un buon imprinting, e da grandi non dovranno lamentarsi, come faccio io, di dovere portare un bagaglio quando si parte. Oppure, ho pensato pure, chissà quanto hanno rotto le balle ai genitori, avendoli visti con il trolley d'ordinanza, per essere dotati pure loro, a mò di giocattolo, di un baby-trolley. Chissà.

Intanto, ho sottolineato alcune frasi del libro, che non è un romanzo o una raccolta di racconti, come solitamente scrive Haruki, ma un saggio. La corsa a piedi come metafora della scrittura. Ci sono alcuni passaggi su cui riflettere, ed altre faccende che mi hanno fatto sentire vicino allo scrittore, nel senso di somigliante, anche se lui è giapponese. Onestamente, somiglio più ad un gorilla che ad un giapponese, per giunta maratoneta cronico, ma non si sa mai.










 

venerdì 8 gennaio 2010

qui non si parla di tifo, difterite o scarlattina

 













Ma semplicemente di come sono bravi gl'Italiani, quelli veri, che come è noto vivono oltre il Po, a scassarci la minchia a quelli che sono diversi. E non sia mai che questi diversi siano pure terroni. Il colmo sarebbe pure che si permettano di parlare, di esprimere un'opinione. E quindi, siccome non sono interista (nè milanista nè di nessun altro colore sportivo), per qualche giorno sarò nero, come lui, e come l'altro, che pur non essendo nero era drammaticamente terùn, e scassarono terribilmente gli attributi pure a lui.

martedì 5 gennaio 2010

nuove frontiere del porno

 







Chiusi i cinema a luci rosse, archiviate le rivistine patinate piene di genitali patinati, dimenticati i dvd hard-core, passati di moda i siti porno gratis, la nuova frontiera è a portata di biglietto aereo. Una indimenticabile esperienza, da esibizionista e da guardone, a seconda delle preferenze. Per i maschietti,passare attraverso un body scanner rivelerà alla poliziotta che sta controllando che l'arma più pericolosa in vostro possesso non è la pistola ma qualcosa nascosto dentro i boxer, così come consentirà di svelare le imbottiture in cotone idrofilo. E se vi piazzerete alle spalle del poliziotto che sta scannerizzando la vostra collega timida, potrete osservarne in dettaglio la conformazione anatomica. Altro che porno, qui siamo nell'ultraporno.

domenica 3 gennaio 2010

venerdì 1 gennaio 2010

Finiti gli anni zero, iniziano quelli uno. Speriamo bene!

 



che augurarci. Felicità, perchè è importante essere felici e la felicità è importante.

Così come è importante condividerla, non tenerla solo per sè stessi.

Ok, si comincia un altro anno. Al lavoro. Schifiate pure questo. (mi riferisco ai soliti noti)