lunedì 30 luglio 2007

agosto ed altre faccende

grilloverde3


 


 


 


 


 


 


 


 


 


E' questione di ore, domani pomeriggio prenderò la borsa da lavoro e la collocherò dentro l'armadio dello studio. Caricheremo le macchine di quello che ancora non abbiamo trasportato nella residenza estiva della med-family, spegneremo gli apparecchi elettrici, chiuderemo i rubinetti di gas e acqua, poi serrature allarme e via. Almeno si spera; che non ci siano contrattempi dell'ultimo minuto.


E se qualcuno volesse passare da Palermo, e non sapesse dove andare a pernottare, può sempre approfittare della med-ospitalità, nel bed&breakfast&arts capitanato dalla med-moglie.


Altra faccenda: chi ha letto il mio libro, ed avrà modo di oziare pontificando di letteratura sotto qualche ombrellone o dentro qualche sacco a pelo, si ricordi di consigliarlo ad amici e parenti, ed anche ai nemici, se non è piaciuto, così quelli imparano.


Per finire: invito tutti quelli che passano da qui a partecipare ad una specie di sondaggione, che consiste nel dichiarare perchè hanno scelto proprio quel nick, e cosa significa o cosa significava. Che se volete sapere perchè ho scelto medicineman, ve lo dico nei commenti, così non facciamo differenze.


foto di medicineman


 

martedì 24 luglio 2007

scirocco in cannila


Lo scirocco spettina il mare sconzando le onde all’incontrario, e la spuma si scippa dalle creste.

I palazzi abusivi caldi sembrano biscotti savoiardi affondati nell’asfalto liquefatto.

Una di quelle giornate da starsene chiusi a casa, lontani dai vetri arroventati delle finestre, a cercare refrigerio sotto il getto gelido della doccia, e non surriscaldare il cervello con pensieri e gesti inopportuni.

Fuori, fetu di uovo marcio, e naschi e bocca subito secche, e il sapore della sabbia mandata da Gheddafi; fuori il ventazzo arrimina i capelli dei passanti, spettina magari le idee, e impiccica le gonne alle cosce bollite delle donne che camminano a fatica, tenendosi una mano sulla pettorina, che c’è pericolo che il vento gliela strappi, la cammisa, e si possano esporre centimetri quadrati di minne a sguardi curvilinei di maschi estranei, affacciati davanti le putie e i bar, pronti a toccarsi il pacco e sussurrare frasi oscene a mezza voce, con espressione porcina stampata sulla faccia deformata dall’odore agro del sesso immaginato.

I surci nascosti a fare la sauna nelle fogne, che se escono è peggio, stonati dal caldo come sono si fanno investire dalle berline sulla via, ne uscì uno ora da un gettatoio vicino al marciapiedi, pare ubriaco, passa tra alcuni picciriddi che si gridano ammazzalu ammazzalu, una scarpa si tira a missile sulla groppa del surci, che per scappare si butta tra le macchine, una frena, una no e lo scafazza , le budella si sparpagliano sulla strada, e tempo niente sono cotte come la stigghiola dell’ambulante, fuma la carogna.


Abballano i sacchetti vacanti della munnizza in aria, parono uccelli neri di malaugurio, pare il festival delle buste di plastica, ma quante ce ne sono abbandonate che ora il vento anima e danzano in aria, e cartacce e fogli della gazzetta, in un osceno mulinello.

E’ già il terzo giorno di forno crematorio naturale e gratuito, come si travagghia cu stu cavudu mi dice l’operatore ecologico interinale, avvolto nella divisa di plastica rossa fosforescente, che pare un panino imbottito nel cellofan, e s’appoggia alla carretta coi bidoni e le scope, cercando solidarietà , ma quando cazzo hai mai lavorato gli dico, e quello ride, che ci travagghio a fare oggi, la munnizza pare viva, non si fa pigliare da me, dice lui.

Perché, gli altri giorni che pareva morta a munzieddi, ti faceva pena a scognarla dal marciapiedi e metterla nel sacco nero ci rispondo, tanto lo so che netturbino fa rima con lagnuso, e lagnuso con garruso e mangiapane a tradimento e che ti parlo a fare, che poi sudo pure io.

Entro nel bar, ma perché sono sceso in strada invece di restarmene sotto la doccia, e chiedo a quel cornuto del barrista: un tè freddo. Quello piglia una buatta preconfezionata e sta per stapparla: ma che minchia mi vuoi fare bere ci dico io, solo questo abbiamo, dice, non c’è tempo per fare quello che facevo quando c’era mio padre vivo, lo talio nella facci e gli dico, questa merda globalizzata te la bevi tu. Il barrista toglie la lattina dal bancone e mi risponde, se non ci piace la marca ora ce la cambio.

 

*Scirocco in cannila è una espressione delle basse Madonie che significa che il calore dello scirocco è talmente forte che piega le candele di cera nelle bugie.

lunedì 23 luglio 2007

alcune cose che ho capito, e certe premonizioni

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Ad esempio durante il fine settimana ho capito perchè fa così caldo. E' tutta colpa dei clandestini, che portano con sì delle piccole otri piene di aria calda, e non appena arrivano sul territorio lampedusano le aprono, e sgonfiando i gommoni generano un vento che riscalda oltremodo l'aria sul continente. E' una specie di arma di distruzione di massa, farà così caldo che ad un certo punto sopravviveranno solo loro, marocchini egiziani e senegalesi, che riescono anche a riprodursi a temperature altissime. Non so a voi, ma a me i quarantaquattro gradi all'ombra sono un ottimo deterrente per l'attivazione della libido. Non si muoveva foglia, anche le mitiche tende con i gattini sono rimaste ferme, la cosa migliore da fare era respirare piano, in questo ultimo weekend campagnolo. I necessari lavori li ho fatti all'alba, ma ho sudato lo stesso. E da ciò che ho visto, sarà un altro anno delle lucertole, probabilmente.


Poi oggi, in un "american bar" ho attirato l'attenzione della bargirl apostrofandola con l'ignobile appellativo di "signora". Che sciovinista, staranno già pensando le più talebane delle mie lettici. Infatti la signora si è girata come una gatta a cui hanno appena pestato la coda "signorina, sono signorina"  mi ha sibilato. la sua collega le ha detto zitta Debora, ma quella si era già praticamente offesa. E pensare che io pensavo che signorina fosse politically uncorrect. O meritevole di esere trasformata in un popolare nick (vero Signorina? ).


Preavviso i lettori e i denigratori di queste personali considerazioni online che tra una settimana si chiude, magari con un sondaggione, e se ne riparla a settembre.

martedì 17 luglio 2007

il pellegrinaggio alla madonna del tindari


Parte I

 

Era arrivato un telegramma al municipio, indirizzato al parroco, che era fratello del sindaco.

Il segretario comunale, addetto al protocollo, sbirciò dentro il plico giallo paglierino, lesse la firma, Padre Nino.

Padre Nino era il secondo fratello del sindaco, prete missionario per obbligo e non per vocazione. Dicevano in paese, e non solo i quattro ubriaconi che giocavano a tressette sui tavolini sgangherati del bar nella piazza, che era stato lui ad avere violato l’onestà della figlia del barone Spadafiore.

Il barone gli aveva offerto una scelta, o andarsene per sempre dal paese, o maritarsela: siccome Padre Nino era parrino, e non si poteva maritare, l’unica era andarsene. Altrimenti. Siccome non aveva il coraggio di scoprire cosa c’era dopo l’altrimenti, Padre Nino se n’era partito, appresso all’esercito, in Abissinia, a convertire i fratelli somali.

Nel frattempo il barone era morto, e gli eredi si erano venduto tutto, preferendo la molle vita della capitale alla fatica di reggere il feudo sulle Madonie, in Sicilia.

Il fratello Pietrino, che era parroco, inizialmente era contrario ad avvisare il missionario del fatto che in paese nulla ostava al suo rientro, ma il fratello Sindaco lo persuase rapidamente “ti aiuterà in canonica, e potrai mandare lui anche per quelle funzioni che a te, a causa della tua sciatica, riescono pesanti”.

Certo, c’era da somministrare la comunione agli infermi, o somministrare l’estrema unzione ai moribondi, il paese era scorticato sul costato di una collina calcarea, e salire e scendere scale era inevitabile, Padre Pietrino si stancava, e ci faceva male la gamba, e poi si trascinava tutto il santo giorno.

La mattina che si aspettava in paese l’arrivo di Padre Nino il cielo era stato pulito dalla tramontana, l’aria era limpida e dal belvedere la vista spaziava dalla rocca di Cefalù fino alla punta di Capo Tindari; le Isole Eolie sembravano a portata di mano, sembrava di vedere le finestre delle case sparluccicare ai raggi del sole.

I passi veloci di un caruso, cadenzati dal rumore delle tacce sul basolato, si fermarono sotto alla finestra dell’ufficio del Sindaco, che aveva messo il ragazzino di vedetta al belvedere.

“Sindaco, Sindaco, affacciate!”.

“che c’è, che hai da gridare” disse il Sindaco sporgendosi al davanzale.

“un mulo e due cristiani, li ho visti, al pigno grande sono!”

Al pigno grande. Un mulo e due cristiani. Meno di due ore di cammino per arrivare in paese. Però perché due cristiani? Padre Nino non aveva detto nel telegramma che arrivava in compagnia.

Il Sindaco richiuse la finestra e si rimise a scrivere la lettera che aveva incominciato, e nella quale congiuntivi e condizionali litigavano selvaggiamente, e non c’era verso di appaciarli.

Nella piazza s’era radunata una piccola folla, i soliti schiffarati, alcune donne pie, un certo numero di picciriddi.

Si sentirono prima gli zoccoli ferrati della mula, poi si videro i due cristiani.

“mii ! due sono i parrini” esordì uno dei carusi arrampicati sul muro della canonica.

“gesummaria, uno niuru è!” aggiunse un altro picciriddo.

Padre Nino camminava allato ad un altro sacerdote, nero di tonaca e di pelle.

Il Parroco e il Sindaco si guardarono negli occhi, con la medesima domanda. Il più lesto a reagire fu il Sindaco, che disse al fratello “ aspettavi un aiuto, te ne arrivarono due”.

“E a questo chi ci dà a mangiare?” pensò a voce alta il Parroco, che aveva accettato con sofferenza di dividere le offerte con il fratello reduce dall’Abissinia.

Arrivata nel centro della piazza, la mula si fermò, Padre Nino alzò la mano destra in segno di benedizione, poi alzò anche l’altra mano facendo segno che voleva parlare, e che si facesse silenzio. La mula cominciò a pisciare.

Padre Nino spiegò che la guerra era finita (che fosse andata male lo sapevano tutti e quindi non ne parlò), che lo Spirito Santo aveva vegliato su di lui consentendogli di tornare sano e salvo al paese, e poi raccontò che la provvidenza lo aveva aiutato nella sua opera di missione, e Padre Mimmo (facile italianizzazione di Mohammed) aveva accettato di tornare in Sicilia con lui.

Le devote nella piazza abbassarono gli occhi, Padre Nino aveva sempre lo stesso sguardo di cifaro, ma Padre Mimmo era un masculuni, il diavolo aveva, negli occhi neri come il carbone.

“A schifiu finisce qui” pensò il Sindaco.

 

 

Parte II

 

Maria Catena passeggiava al Belvedere, e pensava e ripensava mentre metteva un passo avanti all’altro.

Rosalia aveva avuto due bambini, Agnese aveva partorito dieci mesi dopo che si era maritata, persino Consolazione “la buffa” aveva sgravato due gemelli, belli, biondi e con gli occhi colore del solfato di rame.

A Maria Catena non ci dava pace il cuore, si era maritata in primavera come tutte le sue amiche d’infanzia, se l’era presa Matteo, un picciottazzo bello forte e, ogni sera dopo cena, quando tornava dalla campagna , si curcavano insieme. Matteo la faceva gridare quando ci buttava  il suo latte dentro, ma figli niente. E la casa era piccola e sempre ordinata, ci mancava un nutrico a cui badare. Ci mancava.

Anche Cuncittazza a’biddina, pure che le altre donne dicevano che era selvaggia e animalisca come una strega, magari lei aveva avuto un carmuscio, un bambino che gridava sempre, come a sua madre, che se lo portava legato al petto, attaccato alla minna, quando Cuncittazza andava a pulire lo scalone della chiesa.

A Maria Catena ci mancava, un bambino. Che fimmina è una fimmina che non fa figli, se lo ripeteva di continuo, e glielo ripeteva pure al parrino quando andava in chiesa a confessarsi.

Dietro la grata del confessionale, Padre Pietrino prima si faceva raccontare che cosa faceva Maria Catena a casa, che cosa faceva con Matteo, la sera, e poi le diceva sempre che doveva avere fede, fede nella Madonna della Catena, che le aveva regalato il suo Santo Nome, e prima o poi un bambino glielo avrebbe mandato, la Divina Provvidenza. Che lei fosse sempre quella santa donna devota, che continuasse a portarci il pane caldo con l’olio e l’origano, che dicesse ogni mattina due paternoster e quattro gloria, e dopo che Matteo faceva il suo dovere, a letto, che si alzassero insieme a recitare il Rosario. Intanto i grani del rosario di corallo di Favignana che Maria Catena aveva ricevuto in dono dalla zia Peppina di Cefalù si erano allisciati, a furia di farli scorrere tra le dita, ma picciriddi niente.

A Maria Catena ci scivolò una lacrima sulla guancia, e si appoggiò al muretto del belvedere: come al solito, il panorama era spettacolare, spaziando dal Capo Zafferano alla punta di Capo Milazzo, con le Eolie sullo sfondo, vicine che le potevi toccare ma, piangendo, il panorama neanche lo puoi vedere.

“Perché piangete, sorella”. A Maria Catena ci vennero i vermi allo stomaco per la paura, si girò e vide Padre Mimmo, che la fissava con i suoi occhi neri e lucidi, di ossidiana, dalla distanza di un passo, con il breviario nella mano e l’altra mano sollevata a benedire.

Padre Mimmo, u’niuru. Maria Catena ebbe un attimo di incertezza; certo lo aveva visto in chiesa, dire messa insieme agli altri due preti, ma di parlarci, non ci aveva mai parlato. Anzi credeva che u’niuru sapesse solo recitare a memoria la messa in latino, e che poi si esprimesse a versi e rumori come tutti i selvaggi come a lui.

Maria Catena si sciolse in un pianto dirotto, un po’ per la paura, un po’ perché aveva urgenza di confessare la sua ambascia a qualcun altro che non fosse Padre Pietrino, che dei suoi consigli era stanca.

Padre Mimmo la ascoltò, mentre la brezza di mare muoveva le foglie degli alti alberi di sommacco che delimitavano il belvedere, Maria Catena disse chiaro e tondo che voleva finalmente un bambino.

Padre Mimmo girò lo sguardo  verso il mare, e poi disse che dopo qualche settimana si sarebbe organizzato un pellegrinaggio al santuario della Madonna del Tindari, che era conosciuta in tutta la Sicilia per i suoi speciali poteri, che lui stesso era certo che l’avrebbe accontentata.

Come terapia di sostegno, suggerì a Maria Catena di aggiungere alle sue preghiere un’invocazione speciale alla Madonna del Tindari, e le diede un foglietto.

Il cuore di Maria Catena si riempì di speranza, mentre tornava a casa lesse e rilesse la preghiera che le aveva donato Padre Mimmo, e la imparò a memoria.

La sera stessa, dopo che Matteo, il marito, la aveva posseduta con la tenerezza di un toro imbizzarrito, mentre lei pensava allo sguardo luciferino di Padre Mimmo, recitò insieme alle altre la nuova preghiera, certa che avrebbe sortito il suo effetto.

Quella notte dormì con difficoltà, aveva una smania, una caloria forte nel ventre se ripensava a Padre Mimmo, e si rigirava nel letto, mentre Matteo russava come un cinghiale.

 

 

Parte III

 

Per tutto il mese di maggio in chiesa i tre sacerdoti si soffermarono con le devote fino a tardi, per mettere a punto i dettagli del pellegrinaggio alla Madonna del Tindari.

C’era da decidere l’ora di partenza, c’era da calcolare e preparare le vettovaglie, da capire a quale punto della strada si sarebbe trovato il tale convento in cui pernottare, e da raccogliere il denaro per l’offerta alla Madonna.

A Maria Catena sembrava impossibile che si potesse camminare per due giorni per raggiungere quel santuario così lontano. Una sera ne parlò con Matteo, spiegandogli che questo pellegrinaggio era necessario per la sua gravidanza, e gli chiese di accompagnarla.

Matteo bestemmiò, disse che c’erano le vacche da mungere e il grano da mietere, e che proprio non ci poteva venire. Né tantomeno avrebbe potuto andarci lei, la sua sposa, non poteva lasciarlo solo per due giorni per andare a fare una passeggiata con i preti. Maria Catena si restò zitta, ma quella notte tenne le cosce così strette che Matteo non riuscì a montarla come al solito; siccome era stanco e durante la discussione aveva anche bevuto, ad un certo punto si addormentò.

Maria Catena restò a fissare il tragitto della luna dalla finestra lasciata aperta, sotto il soffitto di legno e tegole faceva già caldo.

La notte successiva Maria Catena riformulò la richiesta di andare al pellegrinaggio, di nuovo Matteo bestemmiò come un turco, di nuovo disse no, arrè si bevette un litro di vino rosso. E di nuovo Maria Catena serrò le cosce, e resistette ai vani attacchi di quel gorilla brillo di suo marito.

La storia andò avanti per sette giorni, con le medesime modalità, finchè Matteo acconsentì che Maria Catena andasse a quello stramaledetto pellegrinaggio alla Madonna del Tindari.

“Quando arriveremo al santuario” le disse Padre Mimmo prima di partire, “dovrai raccoglierti in preghiera davanti alla statua della Madonna, e non guardare nient’altro e non pensare a niente. Prega con tutta la forza che hai, e la Madonna ti farà la grazia”. Maria Catena si cominciò a preparare, per lei l’obiettivo era uno solo, qualsiasi sforzo era da indirizzare verso il suo personale successo.

Il viaggio a piedi durò più del previsto, molte delle devote non erano abituate a camminare, cosicché ci vollero due pernottamenti, il primo al monastero di Santo Stefano di Camastra, il secondo in una scuola elementare di Gioiosa Marea, vuota visto che gli alunni erano già in vacanza. Il direttore era cugino del Vescovo e, avvisato da questi della necessità di fare bivaccare i pellegrini, non si tirò indietro.

Finalmente, il terzo giorno, alla fine della ripidissima erta che portava in cima allo sperone roccioso su cui si ergeva il santuario, preti e devoti, stanchi e sudati si accostarono al portone. Padre Mimmo lo spalancò e tutti sciamarono dentro, avvolti dalla frescura e dall’odore dell’incenso.

Maria Catena seguì, stanchissima, il gruppo fino all’altare. Alzò gli occhi per guardare la statua, e prepararsi alla preghiera.

“Ma è niura!” esclamò Maria Catena, al cospetto della statua della Madonna del Tindari, dall’incarnato nero, come nero era il bambinello che reggeva in braccio.

Passato il primo momento di sgomento Maria Catena pensò che, niura o bianca, lei era lì per farsi fare il miracolo, e si mise in ginocchio a pregare. Pregò, sgranando rosari su rosari, non accorgendosi del tempo che passava, pregò tanto che ad un certo punto sentì come un tuono nelle orecchie, la vista s’affumò, le ginocchia diventarono molli come il burro, e cadde a terra, svenuta.

Le devote si fecero intorno alla mischina, stesa per terra svenuta per l’estasi mistica, e visto che non si ripigliava, chiamarono Padre Pietrino e Padre Nino, per decidere sul da farsi. Il priore del santuario aveva una carrozza e due cavalli, con i quali di solito portava fino in cima i turisti facoltosi, e dietro la promessa di una ricompensa acconsentì a preparare il traino su cui caricare l’inferma: sarebbe bastato un solo giorno di viaggio per ricondurla al paese, gli altri sarebbero ritornati a piedi come programmato.

“Ma non possiamo mandarla da sola” disse ad un certo punto una delle devote, lontana cugina della povera svenuta.

“L’accompagnerà Padre Mimmo” sentenziò Padre Pietrino, che essendo il più anziano dei tre, si sentì in dovere di prendere una decisione.

 

Parte IV

 

Maria Catena si riprese dallo stinnicchio che l’aveva presa davanti alla Madonna del Tindari non appena la carrozza fu in vista della rocca del suo  Paese. Per tutta la durata del viaggio era rimasta in uno stato di semiincoscienza, agitata da strani sogni, come quello di un enorme serpente nero che strisciava sulle sue gambe. Si lamentava, delirava, Padre Mimmo la faceva bere, e poi lei tornava a distendersi, e continuava a sognare il serpente; in uno dei sogni aveva l’impressione che il serpente nero uscisse proprio dalla tonaca del parrino, ma non era in grado di capire se era sogno o realtà. Ad un certo punto si sentì più sveglia, presa dall’ impetuoso desiderio di ritornare a casa, ad occuparsi di Matteo ed aspettare il miracolo.

 Si sentiva strana, turbata, ogni volta che gli occhi armalischi di Padre Mimmo la guardavano, e lei attribuiva questo turbamento a quanto successo al Santuario, la preghiera, lo svenimento, il viaggio di ritorno in carrozza.

Arrivati alle porte del paese Maria Catena si sentì bene, e si alzò dal pagliericcio che era stato sistemato nella carrozza, si sedette bella dritta e si mise a chiacchierare con Padre Mimmo.

Arrivò a casa, la stanza di sotto era tutta sottosopra, si capiva chiaramente che Matteo non aveva spostato neanche una sedia nel periodo della sua assenza per il pellegrinaggio, sistemò il disordine, mise le patate nella quadara sopra al focolare, si conzò la vestina e i capelli e attese il rientro del marito dalla campagna.

Dopo cena, si curcarono insieme, Matteo la prese con la delicatezza di un maiale selvatico, Maria Catena continuò a recitare l’invocazione alla Madonna del Tindari per tutta la notte.

 

“Matteo, sei padre, masculu è”, disse il medico condotto mentre si lavava le mani, e l’ostetrica lavava il neonato, che urlava come un’ossesso.

Erano passati nove mesi giusti dal pellegrinaggio alla Madonna del Tindari, ed era arrivato un picciriddo nella casa di Maria Catena e Matteo. L’ostetrica appoggiò il neonato sul petto della puerpera, lei se lo avvicinò alla minna, sentì che succhiava, succhiava forte. Aprì gli occhi.

Un picciriddo bellissimo, nero come la pece.

Matteo non era ancora entrato a vederlo, s’affruntava a entrare, Maria Catena disse all’ostetrica, con la poca voce che le era rimasta dopo le urla delle doglie, “Mimmo, Mimmo lo voglio chiamare”.

venerdì 13 luglio 2007

weekend previsions

il mio weekend (e il precedente, e il prossimo), qui.


rocca pennuta


 


 


 


 


 


 


 


 


 


 


(foto di medicineman)

lunedì 9 luglio 2007

la festa del santo

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la storia, ognuno  l'immagini come se la ricorda.


(foto di medicineman)


 

domenica 1 luglio 2007

versione di latino


Mario trasalì quando vide la busta gialla nella buca delle lettere.

Una multa? Le multe avevano la busta verde pallido.

Aprì lo sportellino, la busta fece un po’ di resistenza prima di finire nelle sue mani.

Ministero della Pubblica Istruzione c’era scritto sopra. Mario sentì il cuore battere forte.

Aprì la busta con mani tremanti, scorse velocemente il testo con l’elenco dei decreti e di tutte le cose che si mettono normalmente all’inizio di una lettera burocratica.

Aveva avuto l’assegnazione ad una scuola. Un liceo.

Lo stesso che aveva frequentato per tre anni.

Prima di dovere smettere per trovare un lavoro: il padre se n’era andato in una umida notte di aprile, e doveva badare alla madre. Mario aveva messo i libri in una scatola di cartone, poi l’aveva portata in cantina, e messa in un angolo.

 

Doveva iniziare il 10 settembre, “è domani” pensò Mario. Arrivò presto, attese che il custode aprisse il cancello, salì i sette gradini di marmo che portavano all’ingresso dell’edificio massiccio in stile ventennio che lo avrebbe annoverato tra i suoi abitanti. Personale non docente.

 “Vai a fare il bidello” aveva detto la madre, guardandolo orgogliosa “come tuo padre, fatti valere” prima di ricominciare a tossire nella poltrona sformata davanti alla tivvù.

Il preside fu sbrigativo, “si faccia dire dai suoi colleghi quello che deve fare, le toccherà il primo piano, quello delle quarte ginnasio, non faccia casini e io non le creerò problemi, Mario”.

Mario si guardava la punta delle scarpe “sa Preside, qualche anno fa io studiavo qui”. “cosa?” disse il preside, “niente, niente” rispose Mario.

Il giorno dopo cominciò l’anno scolastico, Mario seduto dietro al suo tavolinetto guardava i ragazzi che sciamavano, poi arrivò il preside, lui scattò in piedi.

“Preside!”.

“Mario, accompagni questi ragazzi, la classe è la quarta C, gli faccia vedere dove sono i bagni, e come usare i sussidi didattici a loro disposizione”.

Mario guardò i nuovi alunni, pensò che alcuni anni prima era stato uno di loro, poi gli fece vedere dove erano i bagni.

 

“E i professori come sono?” chiese Mario a Samuele, il collega del primo piano, “mah, tutta brava gente, padri di famiglia, la professoressa Martini, quella è una santa, i suoi alunni la adorano, e anche noi, qualunque cosa chieda, siamo sempre a disposizione, ricordatelo” rispose Samuele.

Mario annuì. Se la ricordava, la professoressa Martini, quando lui aveva frequentato quella scuola l’aveva avuta come supplente per due giorni, una Santa.

“stai attento invece al professor Serpente” aveva aggiunto Samuele, “è una carogna, uno cattivo”.

Odino Serpente, già a sentire il nome un brivido scorreva sotto la pelle.

Odino non era sposato, sbavava per la professoressa Russo, la siciliana di educazione fisica, una mora esuberante. Odino Serpente amava il latino, la sua Renòl Tuingo color malva, la biblioteca, i sigari sotto il grande carrubo nel giardino della scuola.

Mario collaudò presto la sibilante lingua del professor Serpente, non gliene andava bene una, e se non trovava libero il posto in giardino per la Renòl si poteva stare certi che sarebbe stata una giornata di merda per tutti quelli che frequentavano la scuola, adulti e ragazzi.

Mario si affezionò subito ai ragazzi della quarta C, imparò subito i loro nomi, “sono i miei primi alunni” si diceva spesso mentre spolverava l’aula e rassettava le sedie, “devo trattarli bene, così loro si ricorderanno di me”.

Passò l’inverno, poi arrivò la fine della scuola, Mario restò a scuola anche la sera degli scrutini, sentì la voce acida del professor Serpente sibilare spesso durante il consiglio dei docenti.

Serpente uscì prima di tutti, andò in giardino, prese il piumino multicolore dal cofano della Renòl e cominciò a spolverare la carrozzeria, guardando la vettura con cupidigia.

 

Quando tutti furono andati via, Mario prese i fogli con i voti, e li appese al tabellone nel corridoio.

Ebbe una fitta al cuore quando vide che i suoi ragazzi della quarta c si erano tutti portati il latino a settembre.

“Ora sistemiamo tutto” si disse prendendo una penna, poi si fermò, non poteva farlo, non poteva tradire la fiducia del preside.

Non ebbe il coraggio di vederli, i suoi ragazzi della quarta C che leggevano gli scrutini, non aveva il coraggio di vedere Ester e Roberto e Francesca e tutti gli altri a capo chino, storditi dal colpo, quindi restò chiuso in segreteria a fare fotocopie finchè non ci fu più nessuno nel corridoio.

Prese la scopa e spazzò via i fazzoletti di carta, imbevuti di lacrime amaramente latinorum, da sotto al tabellone.

Passò l’estate, e ricominciò un altro anno scolastico, Mario fu confermato nella stessa scuola, la quarta, ora quinta, C mantenne la stessa classe, i ragazzi restarono i suoi ragazzi.

 

E il professor Serpente ricominciò a sibilare Cicerone e Virgilio dalla cattedra, alta e ostica come una torre fortificata.

Ogni santo giorno, se non pioveva, Odino Serpente scendeva in giardino durante la ricreazione a spolverare la Renòl color malva col piumino multicolore.

La professoressa Russo si scambiava occhiate vulcaniche con il professor Padoan, un biondone muscoloso arrivato quell’anno, supplente di Storia dell’Arte; Odino schiumava di rabbia e sputava via pezzi di sigaro mentre spolverava la Renòl.

Passò anche quell’anno scolastico, alla riunione per gli scrutini di fine anno partecipò anche il preside, Mario dal suo tavolinetto nel corridoio percepì chiaramente le urla sibilanti di Serpente e le tonanti bestemmie del preside.

Quando tutti furono andati via, prese i fogli con i risultati di fine anno, erano stati tutti promossi.

Mario capì le urla di prima, prima di tornare a casa comprò una bottiglia di Marsala, “domani me la bevo con i miei ragazzi”.

 Però l’indomani lasciò la bottiglia a casa, si limitò a guardare i loro volti sorridenti dal fondo del corridoio; in giardino Serpente spolverava la Renòl, si capiva perfettamente cosa mugugnava mentre masticava il sigaro digrignando i denti.

L’anno successivo la professoressa Russo passò a salutare Mario, “ Padoan ha avuto la cattedra a Recalmuto, ci sposiamo e ce ne andiamo in Sicilia”. Mario sorrise, “mi mancherà la sua gentilezza” disse la Russo, “sicuramente non mi mancherà qualcun altro” soggiunse strizzando l’occhio a Mario, che vide dal finestrone, in giardino, un incazzatissimo Odino che spolverava la Renòl, ed ogni colpo di piumino sembrava portarsi  via la vernice.

 

Arrivò l’ultimo anno per i ragazzi della terza liceo sezione C, le barbe si erano allungate, le gonne accorciate e qualche coppietta si era formata e sfasciata; la professoressa Martini, la Santa, aveva avuto un accidente vascolare durante l’inverno e siccome strascinava una gamba e non ce la faceva più a stare in piedi alla lavagna a spiegare i teoremi e le equazioni fu collocata dal preside in sala professori ad occuparsi dell’installazione del primo computer della scuola.

“Mario, non appena lei ha un minuto libero, le raccomando, vada in sala professori ad aiutare la professoressa Martini”.

Non c’era neanche bisogno di dirglielo, a Mario, che sbrigava le sue faccende presto e correva ad aiutare la Santa in sala professori.

Mario imparò anche ad usarlo, il computer, ed a conoscere quello strumento strano “pieno di potenzialità, Mario, vedrà quanto aiuterà i ragazzi” che era Internet, come diceva la professoressa Martini, guardandolo maternamente negli occhi.

Si seppero le materie di esame, latino scritto e storia orale al classico, il professor Serpente lucidava con bestiale energia la sua Renòl, ogni giorno più ferocemente.

 

Mario appese soddisfatto i tabelloni con i risultati degli scrutini, tutti ammessi agli esami di maturità, il preside era rimasto senza voce per tre giorni, dopo gli scrutini, ma Odino non era riuscito a bocciare nessuno.

Eppure Mario era preoccupato, il professor Serpente aveva lo sguardo assatanato, gli occhi stretti , sempre di più man mano che si avvicinavano gli esami. Poi, a causa dell’indisponibilità della professoressa di Lettere, che si doveva improvvisamente operare di alluce valgo, Odino Serpente si candidò volontario per fare il membro interno: “lo faccio io” ruggì durante il consiglio di classe.

Arrivò anche il giorno della versione di latino, Mario e gli altri bidelli portarono le buste sigillate del ministero nelle classi, poi si riunirono in sala professori: la Santa li aveva convocati tutti “mi raccomando, alle nove, nove e un quarto, passate da me che vi devo dire una cosa” gli aveva detto non appena era arrivata a scuola.

La professoressa Martini sventolava una serie di fogli davanti ai bidelli “è la versione, già tradotta, fatela arrivare nelle classi” aveva detto sorridendo.

Mario si mangiò gli scalini a due a due, si fermò davanti alla porta chiusa della terza C, non filtrava alcun rumore, neanche la vociaccia di Odino Serpente, “ e ora come faccio ad entrare? “.

Restò esitante, il professor Serpente sbraitò qualcosa, lui ridiscese al piano terra.

Guardò fuori dalla finestra, sotto al carrubo la Renòl Tuingo color malva luccicava senza ritegno.

Mario scivolò fino al laboratorio di chimica, la bottiglia piena di liquido giallo finì nella tasca del camice blu, poi si avvicinò alla finestra, fece colare il contenuto dall’odore aromatico sul cofano della Tingo, poi fece cadere un cerino acceso.

Mario risalì al primo piano, leggendo piano il testo di Tacito, tratto dagli Annales, che parlava dell’incendio di Roma, scandendo gravemente “Hortos suos ei spectaculo Nero obtulerat et circense ludicrum edebat, habitu aurigae permixtus plebi vel curriculo insistensbussò alla porta della terza C, strabuzzò gli occhi, si mise le mani nei capelli e urlò con tutta la voce che aveva in gola: ”professore, la macchina brucia!”.

 

Quell’anno, la terza C ebbe i migliori voti della città.