martedì 8 maggio 2012

viaggiatore

Il viaggiatore che intenda trascorrere un periodo di vacanza, o di studio, a Palermo, deve, a mio parere , programmare il suo viaggio in modo da raggiungere la città nel pomeriggio. E deve, senza alternative, arrivare con l’aeroplano. Sperare innanzitutto che il pilota prenda la rotta che durante la planata prima dell’atterraggio gli faccia sorvola Ustica. Poi, il nostro viaggiatore deve sperare che la macchina volante viri e scivoli d’ala, e si affianchi alla costa agganciando il maestoso Capo Gallo. Se questo viaggiatore appiccicherà la fronte al finestrino (ma siamo sicuri che l’abbia già fatto, dal momento in cui il comandante o chi per lui annuncerà che si è iniziata la discesa verso Palermo, spiattellerà la fronte e il naso al finestrino per cercare di riappropriarsi della terra, dopo il sorvolo del mare), vedrà i frangenti sugli scogli della riserva marina, e subito dopo un varco nella montagna gli consentirà di osservare tutta la città in diagonale, da Sferracavallo a Romagnolo, zoomando attraverso la ex Conca d’Oro. Pochi istanti e l’aereo si affianca alla costa, segue il profilo frastagliato dell’autostrada, sorvola radente l’Isola delle Femmine, che vista da qui sembra veramente un’isola e non uno scoglio troppo cresciuto come invece appare dalla terraferma, sfilano alla sinistra le baie di Sferracavallo, Capaci e l’aereo piano piano perde quota, morbidamente scende. E si cominciano a distinguere i gabbiani, le creste delle onde che spruzzano schiuma se c’è vento ( e c’è sempre vento a Palermo Punta Raisi), il fondale è trasparente, verde chiaro-verde scuro, poi blu poi azzurro poi di nuovo verde e poi bianco e poi la torre di avvistamento saracena e già nella carlinga oscurata si percepiscono le bisbigliate preghiere di chi ha timore dell’atterraggio. Le hostess cinturate ai loro posti cinguettano apparentemente distese, e non si capisce se le passeggere di sesso femminile pregano perché temono di essere inghiottite dai flutti in caso di incauta e infausta manovra del comandante o perché paventino l’incontro con qualcuno che le sta attendendo a terra, in aeroporto. Questione di qualche istante di vuoto, un’assenza di tempo e di sensazione, il pilota ha messo i motori al minimo e i carrelli sono aperti da un po’, gli ipersostentatori usciti dalle ali come ali di un bruco che diventa farfalla. Silenzio, assenza, vuoto, si trattiene il respiro, qualcuno fa scorrere un muto rosario tra le dita. Quasi quasi si sentono le pulsazioni dei cuori dei passeggeri, insieme al delicato rumore aerodinamico della fusoliera che senza più spinta sta per ricongiungersi al suolo. Un microtempo che pare eterno, e poi, finalmente, le gomme del carrello toccano terra, di solito senza troppi complimenti, la bestia volante si posa con tutto il suo greve peso di metalli e carne, e subito dopo, le femmine giaculanti non hanno tempo di scorrere un’altra preghiera, l’attacco possente della retrospinta, e i flap stesi come biancheria al sole, luccicano, frenano, rallentano. La pista sembra troppo lunga poi troppo corta e infine la velocità è dissipata, il comandante sterza e si avvia verso l’aerostazione- Applauso, signore e signori, il popolo salvo applaude al pilota, padremadrefratelloamico che li ha condotti sani e salvi in porto, applaudono le comitive di studenti, i gruppi di abbronzati in ritorno dai mari del sud, qualche manager che di atterraggi non proprio ortodossi ne ha vissuti più di qualcuno, su questa maledetta pista strappata alla steppa ventosa di Punta Raisi. Comincia la litania dei saluti da parte della compagnia, alcuni ansiosi hanno già acceso i telefonini che impudicamente squillano, tradendo la mossa furtiva del loro proprietario, subito vengono zittiti e l’incauto attivatore del pulsante di acceso resta fulminato dallo sguardo greve di muto rimprovero dell’assistente di volo. L’aereo non si è ancora parcheggiato (i finger, simbolo di modernità esistono, ma vengono raramente usati, forse per non sciuparli troppo) che, come spinti da invisibili molle, i passeggeri scattano in piedi, con un coro di clac (le cinture di sicurezza sganciate) e tentano di afferrare i bagagli a mano stipati nelle cappelliere: cadranno a terra cappelli, borsette, scatole di giocattoli e cioccolatini. Meno male che stiamo tornando a Palermo, e di vassoi di cannoli che potrebbero soccombere sotto qualche borsa non ce ne sono più. Ma è una guerra effimera, in pochi secondi sono tutti pronti, mentre ancora le porte sono chiuse e le scalette stanno pigramente veleggiando verso l’aereo. Una specie di posizione yoga, la posizione del passeggero immobilizzato, posizione che dura anche dieci minuti e garantisce infiammazioni di sciatiche, tortura di tendini, surriscaldamento, alito cattivo. Finalmente le hostess aprono i portelloni dell’aereo: è uno schiaffo, l’aria puzzolente che ristagnava in cabina viene spazzata via dalla corrente instauratasi lungo la fusoliera, una corrente che odora di scirocco, di sale, di mare, di kerosene e friggitoria. Siamo a casa, non ci sono dubbi. Tutti a terra, trascinando i trolley dimensione cabina che però sembrano contenere piombo concentrato per come scricchiolano penosamente sul cemento della pista: il bus (uno solo, ma ci staremo tutti?) aspetta a qualche metro, mentre qualsiasi vento sbatte in faccia ai passeggeri il fetore dello scarico del motore, rigorosamente un diesel che avrebbe meritato di essere installato su un panzer. In altri aeroporti i bus sono elettrici, però qui potrebbe sembrare un eccesso di snobismo, il vento è meglio lasciarlo correre, non catturarlo anche in aeroporto per produrci elettricità. Insomma, sul bus ci stiamo tutti, manca solo che qualcuno incolli sull’esterno della carrozzeria la scritta “sarde salate in scatola” . Il cigolante bus percorre faticosamente un breve tragitto e scarica la folla ai piedi di una rampa con un tornantino degno di una gara automobilistica, guai a rallentare o sbandare, si innescherebbe un tamponamento a catena, dalle terribili conseguenze: i passeggeri restituiti alla Madre Terra hanno fretta, una fretta indiavolata di percorrere il tragitto che li separa dalle sale interne dell’aeroporto, chi per raggiungere una toilette e scaricare la vescica, chi per arrivare primo al traguardo dei nastri dove spera di ritrovare il bagaglio imbarcato nella vorace stiva della macchina volante. Intanto, alcune guardie di finanza annoiate osservano gli ex-passeggeri, cercando di individuare ad occhio e croce coloro i quali stanno illegalmente importando merci proibite: fino a poco tempo fa cani lupo isterici puntavano i bagagli dei sospetti, ma saranno schiattati per il superlavoro, e non sono stati sostituiti. Si arriva alle porte scorrevoli, dotate di vetri opachi, sopra le quali è scritto “uscita”. Si percepisce nell’aria una violenta vibrazione, un urlo ancestrale, il richiamo preistorico del dna. I parenti. I parenti che sono dall’altra parte della porta, ammassati alle sbarre in attesa di riappropriarsi di quei chili di carne e sangue che sono stati lontani da loro per ore, giorni, settimane. Peccato mortale, i parenti devono stare vicini, appiccicati, fondendo le loro cellule in un groviglio indistricabile, ineluttabile, inevitabile. E’ un attimo, le porte scorrevoli si aprono, un boato disumano accoglie i passeggeri, ormai ridotti al rango di oggetti viventi di cui riappropriarsi. “iddu, iddu è” urla una con pochi denti e tanti capelli, e subito i consanguinei si voltano “unni, unni” e non appena il traditore che ha commesso il terribile peccato di partire per un viaggio arriva a portata di grinfie, sparisce nel soffocante abbraccio della “famigghia”. Spesso, per chi ha fretta di raggiungere il parcheggio o il bus per la città, non v’è altra scelta che sgomitare e spingere, perché i parenti sono lì immobili, passata la prima ondata di sbarchi stanno attendendo di riconnettersi con altra carne pentita e ritornata a casa. Terminato lo scontro gladiatorio coi parenti degli altri, può capitare di fermarsi davanti a porte scorrevoli guaste, e poi una volta usciti comincia lo strattonamento dei taxisti, legali e abusivi, che cercano continuamente polli da spennare lungo il tragitto che dall’aeroporto conduce in città: perdete ogni speranza, o voi che entrate nell’auto con autista, della tariffa non v’è certezza. A seconda dell’umore del conducente e dell’aspetto esteriore del passeggero, può enormemente variare, con buona pace della “tariffazione concordata con le categorie” come scritto sugli adesivi incollati sui taxi. Sei a Palermo, viaggiatore ritornato o appena arrivato, preparati perchè l’aeroporto è solo l’inizio.