mercoledì 31 maggio 2006

Ninu u'barrista


Nino abbassa la saracinesca del bar. Il rumore ormai lo conosce a memoria, si cala, mette i lucchetti e gira la chiave nella serratura. E’ l’una di notte, come fa da vent’anni Nino u’barrista piglia la strada e se ne va a casa, la sveglia è già messa alle sei. 

Alle nove apro l’ambulatorio, già alcuni anziani sono appoggiati al muro, un nano che ride dai manifesti strappati promette ancora più soldi per tutti, loro stanno con i libretti e le ricette da ricopiare in mano,   chiacchierano tra   loro ma appena mi vedono “sarbascenza dutturi!” poi si mettono seri e zitti, ansiosi di occupare le sedie della sala d’attesa. 

La mattinata passa, con i mutuati parliamo sempre delle stesse cose, la pressione “le pigliai le pinnole, quelle rosa, dutturi”, la moglie stolida “un ci si po’ cummattiri cchiù, ci vinni l’arterie, ci scrivessi un medicinali, dottore”, i figli che non si fanno sentire mai “ma se ci serbunu piccioli, dottore, s’arricampano subito”, la pensione che non ci basta “l’euro nnì rovinò, mancu un café al bar potemu accattari”, il governo che è sempre inevitabilmente ladro o becchino “stu curnutu tutti morti vole l’anziani e i pensionati”. 

Sono le undici, l’ambulatorio è momentaneamente vuoto, il momento giusto per fare una pausa. Un café: ci vuole un café. Spedisco Maria, la vedova che mi fa da segretaria, al bar di Nino, “portami un café, se lo vuoi te lo pigli pure tu, e lasciaci venti centesimi di mancia” le dico porgendole una moneta da due euro.

Ho dovuto assumere Maria come segretaria factotum dello studio per una forma di impegno morale che avevo contratto col marito Giuseppe, detto Pinu u’cantoniere, in quanto era lui che ogni pomeriggio veniva a portarmi il caffè e mi diceva “appena mi metto in pensione ci faccio l’infermiere dottore!

E arrivò anche il giorno che Pinu u’cantoniere si era messo in pensione, era passato dallo studio col solito cafè nella bottiglietta di crodino col tappo di plastica gialla, e sorridendo mi aveva detto “mi sono comprato il camice, da domani in questa sala d’aspetto comando io!”.

Solo che durante la notte un infarto se lo era rubato; trascorsi i giorni di lutto stretto, cominciò a venire la vedova, Maria, a portarmi il cafè. Mi sentii in obbligo di dirle che volevo che fosse lei a sostituire il marito, e quella non se lo fece dire due volte. Sono passati cinque anni, lei si veste sempre di nero, ed ha una chiacchiera che stona tutti, pazienti, passanti e collaboratori scientifici. 

Nel frattempo che Maria si fa la strada per arrivare al bar, prima restando invischiata  al negozio di sua cugina Melina, il tempo di conzare quattro curtigghi, entra nell’ambulatorio un informatore scientifico, che si meraviglia per la sala d’aspetto deserta. 

mi salvai stamattina, nessuno a dirmi minchia n’autru cummessu c’è!” dice ridendo Antonio Campallegro, uno di quelli con cui si può discutere, che non c’è pericolo di vedersi raccontare tutta la storia del prodotto farmaceutico di cui si occupa, uno di quelli che gli interessa anche che i malati abbiano una buona medicina, non solo la più costosa. Che in fondo è quello che interessa pure a me, che stì vicchiareddi campino dignitosamente, come dice il ministro, che abbiano una accettabile qualità di vita. Antonio mi veniva a trovare alla guardia medica quando ancora non avevo pazienti miei, ormai è parte del mio lavoro. Una volta siamo partiti insieme per andare ad un congresso a Catania, mi parlò della passione per la bicicletta, per la musica e per le buone letture. Ne restai contagiato, e da allora non facciamo altro che scriverci sms, nei periodi in cui lui non passa in questa zona, per segnalarci il cd o il libro assolutamente imperdibili. Abbiamo anche provato ad organizzare un weekend con le rispettive famiglie, che viene sempre rinviato. 

Antonio mi lascia alcune penne sponsorizzate, faranno felici Maria e i suoi nipotini, e fa per alzarsi.

ce lo pigliamo un cafè, Michele?” mi dice Antonio, e dato che Maria ancora non è tornata, chissà dove è rimasta invischiata con le sue chiacchiere appiccicose, metto il cartello “il dottore è in visita domiciliare” e esco con lui. 

Arriviamo al bar, due passi sotto al sole fanno ritrovare la voglia di ridere, facciamo la solita farsa per decidere chi deve entrare prima, e alla fine entriamo insieme, scostando la tenda di tagliatelle di plastica trasparente, scomodando alcune mosche che si stavano abbronzando. 

Dutturi buongiorno!” dice Nino appena ci avviciniamo al banco, “due cafè” dice subito Antonio mettendo alcune monete sul banco, “offro io, non ci permetta al dottore di pagare altrimenti ci brucio il negozio” aggiunge Antonio strizzando l’occhio.

Nino si avvicina alla macchina del caffè, cromata e enorme, sembra il radiatore di una automobile americana, saranno vent’anni che è sempre la stessa, funziona a gas e va benissimo.

I movimenti sono i soliti, svuotamento del tufo nel cassettone, riempimento con il caffè macinato, due tazzine sotto agli ugelli, giù la leva che manda l’acqua bollente in pressione, il tempo di contare mentalmente fino a quindici e le tazze con il liquido aromatico e caldissimo vengono messe sotto ai nostri nasi. 

Nino si appoggia al bancone, dopo essersi asciugato le mani con uno strofinaccio, “si beva il cafè, dottore, che poi ci devo parlare”, mi dice guardandomi negli occhi.

Mi accorgo che i suoi sono particolarmente arrossati, sarà che dorme poco, penso , forse ha disturbi alla vista, o l’ipertensione di cui soffriva suo padre, la mia sequela diagnostica viene interrotta da Antonio “che fai sogni? Amunì che ho lasciato la mia borsa da te e ancora devo andare a Serradifalco”. 

Nino, a mezzogiorno chiudo l’ambulatorio, poi passo e parliamo” Nino annuisce e prepara altri caffè.

Da una delle sedie in fondo al bar si sente una voce, è Turiddu u’babbu, il genio scemo del paese.

dottore” mi dice “la vita è come il cafè

che vuoi dire Turiddu?” Rispondo io.

che se quando nasce ci danno il cucchiaino, può arriminare il cafè e la vita diventa dolce, altrimenti lo zucchero della vita resterà in fondo alla tazza.

Pronuncia questa frase e si allontana, con suo passo da genio scemo.

Antonio mi guarda in faccia e si mette a ridere.

Mentre usciamo quasi mi scontro con Maria “eeeh lei ccà è dutturi, mi fermò mia cugina Agatina, m’avia a cuntari na cosa…” dice gesticolando e scuotendo il testone pieno di capelli grigi, “lascia perdere Maria, il cafè l’abbiamo già pigliato, tornatene allo studio” rispondo io. 

Non viene più gente, mi affaccio davanti alla porta dell’ambulatorio, la piazza sembra la stessa di ieri e del mese scorso e è la stessa da duecento anni, e sono gli stessi anche gli anziani vestiti di velluto nero che occupano le panchine sotto gli ailanti, “qui non cambia mai niente” mi dico mentre saluto Maria, “domani alle tre del pomeriggio giusto dutturi?” 

Rientro al bar da Nino, mi vede, fa un fischio a Gerry, eufonico esterofilo diminutivo di Gerlando, il nipote che l’aiuta “sugnu ccà nnavanzi, col dottore”.

Usciamo, nelle sedie di metallo cromato e plastica colorata non c’è nessuno, è troppo presto per gli schiffarati che si alzano all’una, troppo tardi per i pensionati che a quest’ora sono già a mangiarsi un piatto di pasta squadata .

che c’è” dico a Nino.

u ficatu…il fegato, dottore il fegato mi dole, mi mancia, mi punci, un pozzo dormiri, un mi pozzu calari…”

istintivamente porto la mano a palpare sotto le costole, provo a sentire la colecisti, in effetti il fegato sporge parecchio “ahi ahi, minchia dutturi, con rispetto parlando, mi fa male!” grida Nino facendo un passo indietro. 

L’osservo, gli chiedo “che mangi per ora? Ti sei messo a mangiare grasso?Ova? Sasizza? Tumazzu?”.

Nino abbassa lo sguardo. Non risponde.

allora? Me lo devi dire, se vuoi aiuto, non è che ti posso scrivere analisi e medicinali senza sapere la causa…allora?”

E’ che…è che…nsomma dutturi, i clienti entrano al bar, pure i picciotteddi…”

“e che c’entrano i clienti? Ti fanno fare bile? T’acchiana u’nirbusu?”

Nino mi guarda negli occhi, prende fiato “no dottore, è che prima entravano al bar e dicevano nino due cafè nino tre cafè, ora invece dicono aperitivo, prepara l’aperitivo, facci un cocktail, e io preparo aperitivi, e finisce che resta sempre n’anticchia e me lo bevo io, pare male buttarlo…

Vittima della globalizzazione, di stò aperitivo…

per un mese non bere alcolici, poi ti faccio fare gli esami del sangue, e se hai ancora dolore, vai all’ospedale a fare una ecografia, poi se vuoi morire di cirrosi epatica sono fatti tuoi…

nino cala la testa, fa nzù, non vuole morire col fegato squagliato.

fammi un cafè, che me ne vado a fare le visite domiciliari …”.

I movimenti sono i soliti, svuotamento del tufo nel cassettone, riempimento con il caffè macinato, una tazza sotto all’ugello, giù la leva che manda l’acqua bollente in pressione, il tempo di contare mentalmente fino a quindici e la tazza con il liquido aromatico e caldissimo viene messa sotto al mio naso.

Passo il pomeriggio a fare visite, e rifiutare rosolii, caffè, marsala, passito, zibibbo, buccellati, fascelle di ricotta, agnellini vivi, poi torno a casa.

E’quasi l’una, spengo la televisione davanti alla quale mi sono piacevolmente rincoglionito, Miro, il setter gordon che mi fa da scaldapiedi mi guarda, scodinzola in quel modo che significa una cosa sola nel suo linguaggio canino, “devo pisciare, Michele”.

Mi alzo a fatica dal divano, Miro ha capito e va a prendere il suo guinzaglio, me lo porta tra i denti, scendiamo in strada, la notte è umida e una nebbiolina leggera si insinua tra le strade e le vanedde del paese.

Finalmente il cane trova l’albero adatto alle sue esigenze di marcamento del territorio; mentre la fa, fissa una luce nella piazza, che si spegne.

Nino abbassa la saracinesca del bar. Il rumore ormai lo conosce a memoria, si cala, mette i lucchetti e gira la chiave nella serratura. E’ l’una di notte, come fa da vent’anni Nino u’barrista piglia la strada e se ne va a casa, la sveglia è già messa alle sei.

 

domenica 28 maggio 2006

estate del '69


Era l’estate del ’69. papà dormiva nel pomeriggio, accanto alla lavastoviglie. Diceva che era un rumore che conciliava il sonno. Dopo, gli diedi ragione, avendo ascoltato quei dischi che servono a far addormentare i bambini e che riproducono il ciclico liquido pulsare del cuore materno.

Era appunto l’estate del ’69, la zia aveva appena partorito, il cuginetto era nella sua culla, inutile e piagnucolante. Non ci si poteva giocare, e non si poteva toccare.

Mi piacevano le navi, e in quella città di mare se ne vedevano tante entrare e uscire dal porto, spesso chiedevo di essere portato sul lungomare, a vedere il punto, proprio quel punto preciso, da dove era partita la nave di Garibaldi. Che eroe, avevo nove anni, e il suo ritratto sul sussidiario mi aveva proprio impressionato.

Mi piacevano anche gli aerei, i missili, cominciavo ad avere la vaga idea che non fossimo soli, che da qualche parte, nell’universo, magari nella costellazione di Andromeda, ci fossero altre forme di vita. Vita simile all’uomo, il telefilm lo faceva capire.

Poi seppi dal telegiornale della sera che, proprio quella notte, una navicella spaziale avrebbe portato il primo uomo a calpestare il suolo lunare. Volevo restare sveglio a vedere cosa sarebbe successo, mamma mi disse che sarebbe stato tardi, veramente tardi nella notte per permettere di restare sveglio. Era l’estate del ’69, avevo solo nove anni, un bambino ero.

Passai il pomeriggio ad ascoltare la musicassetta di contrabbando che avevamo comprato in mattinata da un napoletano nei carruggi, consumando le orecchie alla zia con la Canzone del Sole.

La porta della stanza dove dormivo restò aperta, e ad un certo punto della notte vidi dei bagliori provenire dalla cucina, e la voce di un giornalista con gli occhiali che parlava in un linguaggio da astronauta.

Mi alzai, raggiunsi papà e lo zio che in silenzio sul divano della cucina guardavano fisso dentro al televisore, dove delle immagini piene di disturbi lasciavano intuire che un uomo infagottato dentro la sua tuta spaziale bianca scendeva la scaletta del modulo lunare.

Pensavo che sarebbero venuti fuori dall’oscurità dei Lunatici a dargli il benvenuto, o a mangiarselo, ma non successe niente.

L’astronauta scese l’ultimo scalino, ballonzolò goffamente intorno alla scaletta, poi papà mi disse di tornarmene a letto.

Era l’estate del ’69, papà dormiva nel pomeriggio, accanto alla lavastoviglie, io ero un bambino.

 

 

martedì 23 maggio 2006

parliamo di mia madre


 

Parliamo di mia madre

 

La scena prevede una automobile tagliata a metà sul sedile del passeggero un manichino, e più distante, illuminato da un occhio di bue, un divano chester.

La luce punta dritto dentro l’abitacolo della vettura, dove si svolge il dialogo, che in fondo è un monologo, visto che il manichino non parla.

Nell’alternativa della recitazione a due, gli attori saranno affiancati, sui sedili anteriori della macchina, che guardano avanti, evitando di toccarsi.

 

Ora, il fatto di trovarmi qui in macchina con te, che tu non te l’aspettassi affatto che io mi sarei spinto a chiederti di salire da me, e la tua reazione.

 

Lei: no, non ti preoccupare, non è niente.

 

Ho capito subito, hai drizzato la schiena, come un animale che si mette all’erta, che sente un pericolo.

 

Lei: non ho detto che ho paura di te, non ho avvertito un pericolo particolare, mi sono solo sentita a disagio, in fondo è da poco che ti conosco, e a me piace poco affrontare situazioni di potenziale disagio.

 

No, non volevo dire che hai paura di me, lo so che non hai paura di me, lo percepisco, altrimenti non ti saresti fidata ad uscire con me stasera.

 

E’ vero, ti conosco da poco, ma quando ti ho vista arrivare in ufficio l’altro giorno, ho subito pensato che saresti stata il tipo di donna con cui uscire, non tipo una cena romantica, una mostra di pittura invece, una cosa come la presentazione di un libro.

 

Lei: si certo, ma…ma…

 

Ti sembra che abbia preso una iniziativa inattesa? Ho tradito la fiducia che stavi riponendo in me? Ho fatto male a venire alla tua scrivania per dirti mi piacerebbe che domanisera venissi con me alla presentazione del libro di un mio amico?

 

Lei: di solito vado con piacere alle serate culturali, lo faccio spesso anche con le mie amiche, ho solo sottovalutato il fatto che tu non mi avessi detto di che tipo di riunione si trattasse:

tutti quegli psicologi, e psichiatri, ed il tuo amico, quello che ha scritto il libro, mi ha messo in forte imbarazzo quando mi guardava in quel modo, credo di essere arrossita almeno un paio di volte. Non lo tollero, quello sguardo da onesto intellettuale che ti spoglia con lo sguardo, che cerca di capire se una ha il seno rifatto e se quella sera andrà a letto con l’uomo che l’accompagna. Questi tipi mi hanno sempre fatto paura, perché mi guardava in quel modo…

 

Si lo so, lo so, lui è un sessuologo, ho capito che ti metteva in imbarazzo quando guardava te e poi guardava me, ho capito che ti sei sentita in qualche modo giudicata, che hai pensato che lui potesse valutarti come mia potenziale partner.

 

Lui prende in mano il libro, ha la copertina rossa lucida, lo gira tra le mani, come se fosse un oggetto caldo, fa il gesto di porgerlo verso di lei, poi lo nasconde di nuovo sotto al sedile.

 

Ho capito, lo percepisco sai , quando le donne sono in imbarazzo accanto a me, ti sei irrigidita, hai lasciato subito andare il mio braccio, come a volere segnalare che la tua presenza accanto a me non implicasse niente di personale,

assolutamente niente di sessuale, niente, che noi eravamo lì solo perché ti avevo chiesto di uscire con me, senza che ci fossero coinvolgimenti di altro tipo.

 

Lei: si ho capito che te ne sei accorto, sono fatta così, la tensione che esprimo in quei momenti si sente sul mio corpo, divento dura, lo so, emano sfiducia, sono fatta così, e me ne volevo andare, anche da sola, ma tu non mi hai lasciato andare, hai tenuto il mio braccio sotto il tuo, mi sono sentita una specie di bambola che tu portavi in giro, mi è sembrato ad un certo punto che tu mi avessi portato lì per certificare a quella gente il fatto che hai una donna con cui uscire, una ragazza che esce con te, si ho pensato proprio che volessi dare l’idea a loro che stiamo insieme, che non sei un uomo solo, che hai una donna, non una amica che ti accompagna, una donna che viene con te alla festa, che ci guardano e pensano che siamo una coppia, e non ti devono commiserare.

 

Infatti non ti ho neanche detto restiamo ancora un po’, c’è il cocktail, ho capito che eri turbata, mi sono detto forse adesso è il momento di riaccompagnarla a casa.

Detto fra noi, e non pensare che io sia irritato adesso, ho pensato che la tua reazione era stata eccessiva, e che io non avevo fatto nulla per provocarla, forse la combinazione di ambiente e persone di quel tipo ha scatenato la catena di ragionamenti che ti ha messo a disagio, scusami, si adesso ti chiedo di scusarmi…

 

Lei: non chiedermi scusa adesso, sono sufficientemente adulta per capire che l’atmosfera si è incrinata per colpa mia, anche se adesso non penso di…

 

E’ che anch’io ho un grande imbarazzo a parlarti di queste cose. Ho un grande imbarazzo anche se sembra che riesco a trovare le parole, ma mi sento davvero in difficoltà.

 

C’entra mia madre...Cosa c’entra mia madre? Non sono sicuro di volertene parlare, potresti pensare che sto cercando di raccontarti cose di me che possano in qualche modo coinvolgerti.

 

Lei: tua madre? Cosa c’entra tua madre? Parlamene, sono curiosa di sapere che ruolo possa avere avuto la figura di tua madre, che neanche conosco, nella serata di oggi.

E, detto per inciso, non ho intenzione di conoscere le madri di tutti gli uomini con cui esco.

Proprio non voglio conoscere le mie teoriche suocere, non riesco a tollerare lo sguardo poliziesco ed inquisitorio sotto cui mi scuoiano viva quando gli uomini mi presentano alle loro vecchie streghe…scusami…volevo dire alle loro mamme. Parlamene, credo che mi aiuti a capire…(ride) forse un giorno sarò anch’io madre, magari mi aiuta a non fare le stesse cazzate con mio figlio…

 

Dici che posso parlartene, ok, forse posso parlartene, cerco di farlo in maniera distaccata, nella maniera che meno possa coinvolgerti.

 

Lei: ti ascolto…raccontami pure.

 

Mia madre ci ha allevati in modo rigido, si occupava di noi con metodi razionali diceva lei. Aveva una enorme fiducia in un manuale di pedagogia tedesco, seguiva quasi alla lettera le indicazioni di questo manuale.

 

Lui prende da sotto il sedile un volume con la copertina bianca, con un biberon rosso e titoli rossi e lo agita davanti a sé, stando bene attento a non farlo arrivare dove lei possa prenderlo

 

Eccolo, lo porto sempre con me, anche in macchina. Sono sicuro che vedendolo, chiunque mi conosca non si faccia una impressione sbagliata di me, perché il titolo del manuale ed il nome dell’autore sono incontrovertibili, devono dare sicurezza.

 

Anche se a me in effetti non è che ne abbiano data così tanta, ma sono cresciuto sano, nessuna malattia grave, solo qualche banale influenza, e poi tutto a posto, dalle ossa al fegato, dagli occhi ai piedi. Posso camminare per ore sai, non ho i piedi piatti e non rovino le scarpe, di questo mia madre andava orgogliosa, e le mie scarpe usate andavano sempre a mio fratello minore. Come se fossero nuove.

 

Lui non si fa più sentire da me, ha aperto un negozio, di scarpe in centro; scarpe costosissime, io non potrei comprarle. Penso che…penso che non mi voglia bene.

 

Lei: davvero? Un negozio di scarpe? Io adoro le scarpe costose…

 

Io forse avevo bisogno di più affetto, di un contatto più diretto con lei, non ti sto dicendo queste cose per cercare di apparire debole o in cerca di affetto o di farti sentire in colpa verso di me.

 

Adesso però mi sento in difficoltà a parlarti così di queste cose così in macchina, chiusi qui dentro, con i vetri che si stanno appannando, forse ora è meglio che ti accompagni a casa, si è fatto veramente tardi e non vorrei che avessi difficoltà , non so tipo la sveglia di domani mattina.

 

Lei: voglio salire, voglio venire a vedere com’è la tua casa, sono curiosa di vedere com’è la casa di un uomo ordinato e preciso come te (ride). Ho trentanove anni, posso decidere se mi va di salire da un uomo, e se mi va ci salgo, e poi come ti ho detto sono curiosa (fa per aprire lo sportello ma resta a metà).

 

Vuoi salire allora? Sei sicura? Va bene saliamo, poi ti riaccompagno a casa, non ti preoccupare, ti accompagno fino davanti alla porta, e aspetterò che ti accerti che non ci sia nessuno dentro.

 

A questo punto viene abbandonata la macchina, il protagonista gira attorno alla vettura, apre lo sportello, accompagna la donna, al divano. Poi torna all’auto, prende i manichini, li sistema al posto guida, ritorna al divano e si siede; la luce sulla vettura viene attenuata, restano accese solo le lucette di cortesia interne.

 

Ecco questo divano ti piace? E’ comodo, ti assicuro, ci consentirà di parlare senza che la postura sia condizionata, non troverai difficoltà perché il diaframma è impedito nei suoi movimenti, è un divano ergonomico, speciale, potremo parlare tranquillamente.

 

Lei: (inspira profondamente, poi espira rumorosamente, ride) in effetti questo divano è veramente comodo, il classico divano da conversazione.

(si avvicina a lui, lui si scosta un po’, lei si riavvicina, lui assume un atteggiamento rigido).

 

Ti stavo dicendo di mia madre, del fatto che con i miei fratelli non ho avuto la possibilità di accedere alla sorgente del suo amore materno, che crescendo ho sentito questa mancanza.

 

Lei: offrimi qualcosa da bere, e abbassa un po’ la luce, anzi metti per favore un disco di jazz in sottofondo, a volume basso, il jazz mi rilassa, mi aiuta a lasciare da parte i pensieri, a fare in modo che io sia più sincera…

 

Va bene, cosa preferisci? Un liquore dolce o uno secco? Con ghiaccio? Metto un disco di Coltrane, ti piace Coltrane? Questa è una rara registrazione dal vivo in Giappone…

 

Lei: (si toglie la giacca e lancia via le scarpe non appena lui si siede di nuovo sul divano, con i bicchieri in mano) e’ giusto che io te lo dica, quando conosco un uomo nuovo devo essere sicura che lui prenda certi provvedimenti igienici…hai dei preservativi? Nel caso in cui la serata prenda una certa piega…mi capisci no? (ride)

 

Cosa dici? se ho dei profilattici? Ho capito che non ti va che io ti parli di mia madre. Ti verso ancora qualcosa da bere? No?

 

Lei: non parlarmi mai più di tua madre, adesso voglio che tu mi dica delle cose carine all’orecchio…anzi per favore, ho bisogno del bagno…

 

Il bagno? Ti accompagno io, ti do delle tovaglie pulite, stai tranquilla è in ordine, mia madre mi ha insegnato a tenere sempre tutto pulito.








avevo scritto un monologo, poi diventò un dialogo perchè pareva che si potesse portare in teatro; non se ne fece più nulla, c'è però un motivo per cui lo pubblico oggi.

 

 

 

 

venerdì 19 maggio 2006

regole da rispettare??


Regole da rispettare?

ma per favore,

volete scherzare?

Né parola né onore,

politica o pallone:

chi le rispetta è coglione.

Vincere il campionato?

Facile dice Moggi,

con l’arbitro comprato

a forza di orologi.

Partite truccate,

risultati aggiustati,

soldi a palate:

tifosi abbindolati.

I senatori a vita

la fiducia votano,

una cosa inaudita

da destra gridano.

Perfino per Ciampi,

uomo imparziale,

invocato come salvatore,

definito immorale.

Povera italia,

di dolore ostello!

Fermiamo il campionato,

tanto ormai è un bordello!

E ai forzisti indignati,

una piccola lezione:

sarete squalificati

senza educazione.

 

domenica 14 maggio 2006

telefonata inattesa


Pronto? Sono la morte, ho un messaggio per te.

Cosa? Chi parla?

Sono la morte, ho un messaggio per te, ascoltami che non mi piace ripetermi.

Ma è sicura di cercare me? Questa è casa Russo, io sono Antonino Russo, e per ora sto benissimo.

Ascolta: tra tre giorni ti vengo a prendere.

Tre giorni? Ma non può essere, ci deve essere uno sbaglio, ho solo quarantanove anni, non fumo, vado a correre tre volte la settimana, il colesterolo è basso, e mio padre ha vissuto fino a ottantatre anni, pace all’anima sua.

I tuoi documenti parlano chiaro: e ringraziami che ti ho avvertito, di solito non mi prendo questi scrupoli.

Ho mandato un libro ad un editore, mi ha detto che si sarebbe fatto sentire la settimana prossima, è il mio primo libro, ci terrei a vederlo pubblicato.

Si vede che uscirà postumo, e sarà un discreto successo, so che i giornali ne parleranno bene, e scriveranno peccato che Russo se ne sia andato. Per te è una cosa buona, non avresti più scritto altro, e da vivo non te l’avrebbero pubblicato mai. Questo lo so, ovviamente a me è dato saperlo.

Ho capito. Il mutuo: ho ancora sette anni di mutuo da pagare, e mio figlio non lavora ancora, non posso lasciarlo nelle mani della banca.

Bugiardo: hai fatto la polizza con la banca, che se muori, e tra tre giorni ti vengo a prendere, l’assicurazione copre la restante parte: del resto sei giovane e in buona salute, un soggetto a basso rischio per la compagnia. E tuo figlio starà benissimo senza di te, lo so, e stai sicuro che non andrà a stare con quella strega di tua moglie.

Ex-moglie, prego. Però così le fai un favore, togliendomi di mezzo, quella mi odia, forse è stata lei con le sue preghiere a farti venire da me.

Niente affatto, sull’elenco c’è il tuo nome, e stai tranquillo che non do ascolto a pazze isteriche.

Non c’è niente da fare? Non ho diritto ad una proroga? Neanche se pago qualcosa? Neanche se mi faccio raccomandare? Devo andare in chiesa?

Nessuno sconto: tra tre giorni vengo. Fai una cosa per te: mettiti a digiuno, purgati, sbarbati regolarmente, vai dal barbiere, metti in evidenza il vestito grigio e tagliati anche le unghia già che ci sei: i tuoi parenti avranno meno fastidi.

Un avvocato: mi ci vuole un buon avvocato, uno di quelli che salvano il culo ai politici!

Tu non sei un politico, sei un banale impiegato, tre giorni e basta. Ora chiudo che sto esaurendo il credito. click

 

 

mercoledì 10 maggio 2006

frullatore genetico


 


E siamo entrati in un negozio di scarpe del centro, di quelli tutti specchi e acciaio, con le commesse talmente rigide che sembra che abbiano le emorroidi cerebrali, e c'era una bambina, mi pare che si chiamasse Vanessa, e sua madre e sua nonna. La nonna provava scarpe da nonna, che era perfino strano che quelle commesse ammalate gravi riuscissero a trovarle, e Vanessa diceva, ad ogni paio provato "mamma provati le scarpe di nonna". Solo che la mamma aveva qualche remora a provare scarpe da nonna, finchè ad un certo punto le ha detto sibilando "Vanessa, fatti un chilo e mezzo di fatti tuoi". Vanessa secondo me è ancora là che pesa i fatti suoi. Il giorno dopo, in un bar davanti la costa mediterranea, due parlavano fitti, e ho sentito che si dicevano, ma mi sembra di conoscerla da prima, anche se non si conoscevano di sicuro, colpa del frullatore genetico ho pensato. Poi oggi in un reparto d'ospedale, dove c'era una tv accesa, hanno detto che era stato eletto il Presidente della Repubblica: tutti hanno capito che era napoletano. E un vecchietto con qualche rotella grippata, solo qualcuna comunque, ha cominciato a dire, "teatro parlamento, canta napoliiiii". Gli infermieri ridevano, io no, ma non ho chiesto al vecchietto di spiegarmela, l'ho capita dopo in macchina.Poi ho sentito le interviste, e non si è capito se i grandi elettori erano contenti o no, tranne il solito procione etilico che ha dichiarato che non riconosce un napoletano presidente della repubblica. Secondo me il procione etilico calderoli non riconosce neanche la sua di immagine allo specchio. Quando smetteranno di intervistarlo?

domenica 7 maggio 2006

calexico


Quasi mi verrebbe di chiederlo, anche se so che ognuno è libero (forse) di fare quello che vuole.

Questo ho pensato quando ho letto le prime recensioni di “garden ruin”, ultimo lavoro dei Calexico.

Rottura col passato, conversione al pop, anima calexicana smarrita per strada. Sarà che non sono un critico specializzato, sarà che sono sempre molto critico nei confronti dei giudizi dei cosiddetti esperti, sarà che alla fine è l’effetto che fa nelle mie orecchie che mi fa dire “mi è piaciuto” oppure “non mi è piaciuto”. Già dal terzo passaggio nel lettore dell’Audi, i nervi acustici erano abbondantemente attivati, poi ho messo tre volte di seguito la traccia numero undici “all systems red”, ed ho capito perché mi piace. E’ vero, è un disco diverso dai precedenti, almeno nei suoni, anche se la perfezione artigianale ed il piacere di usare e suonare strumenti insoliti c’è sempre. Invece di essere un sofisticato etno-pop, è un cd da fruire anche ad alto volume, oppure lasciare fluire dagli auricolari di in un lettore mp3, e come mi aspettavo, curato, non casuale, non affidato all’onda del rumore emozionale, né al pompare delle batterie elettroniche.

Garden Ruin non è una svolta, è una evoluzione, in cui buona parte del dna dei Calexico si riconosce analizzando bene la costruzione degli arrangiamenti, pur suonando in maniera differente, e coinvolgente.

Dicevo della traccia undici, che è l’ultima del cd, “all system red”: il brano parla di ascolto, di percezione, di rumori, ed è arrangiato , se mi si permette il termine, in maniera biologica.

Dei suoni nativi, dai quali si sviluppa un ritmo avvolgente, che può richiamare, anche se è assolutamente originale, certe costruzioni organizzate dall’associazione a delinquere brian eno-u2; il brano cresce, si arricchisce di ritmi e rumori, assume un andamento sinusoidale, quasi una pulsazione sessuale, arriva ad un climax ad alta tensione, poi si decostruisce, si scompone, si elementarizza, come quel momento in cui, dopo l’orgasmo, ci si trova sull’orlo del baratro e si teme di precipitare nell’incoscienza, e invece si plana piano, mentre i sensi si intiepidiscono e si raffreddano, verso un rumore di fondo che vuol dire sono ancora vivo.

 

venerdì 5 maggio 2006

il suo volo non è in ritardo


Mi sono avvicinato cauto al banco del check-in, stranamente non c'era nessuno in fila. La signora della compagnia aerea ha preso il mio biglietto e mi ha chiesto se avessi preferenze di posto. "se possibile, un posto corridoio, avanti, nella fila da due, e...se possibile non mi metta nessuno accanto", che voglio leggermi le ultime pagine del libro, questo non gliel'ho detto, l'ho solo pensato. "caro signore, lei mi chiede troppe cose, non posso accontentarla". Ho lanciato alla donna in divisa uno dei miei sorrisi da orsettodipeluche e atteso che preparasse la carta d'imbarco. Per un pò mi sono aggirato per l'aeroporto, constatando con meraviglia che il volo non era in ritardo. Dopo, a bordo, il posto era come lo volevo io, e non avevo nessuno accanto: il mio sorriso funziona ancora!