giovedì 24 aprile 2008

la figlia della badante


Mimma era una bella figliola. Alta, sciacquata, Rossa di capelli, due occhi da furetto che scavavano dentro quando ti taliavano.


Eppoi aveva il bar. Di fronte al Municipio, allato alla caserma dei Carabinieri.


 Cafe! un  cafè, due cafè!Mimma  tre cafè!.


Queste erano le voci che si sentivano la mattina, quando la porta del bar era aperta, e Pino aveva uscito i tavolini di metallo sul marciapiedi.


Poi Pino pigliava la catasta di sedie e la metteva fuori. Chi si voleva assittare acchiappava una seggia e la metteva a terra, vicino al tavolo.


Magari poi arrivava un altro, ci diceva a quello che era seduto “nnà facemu una partita a scopa?”


“chi perde paga i cafè”.


I cafè potevano diventare quattro, o cinque, o chiàssai, se altri si andavano ad assittare per taliare i giocatori.


E Mimma rideva, e faceva cafè. Pino metteva le tazze calde nel tabarè rotondo, quello con la stella della marca della birra, e li portava fuori.


La tenda faceva scruscio, le mosche volavano via, il cane acciambellato all’angolo della piazza alzava un orecchio e apriva l’unico occhio buono, poi ripigliava a dormire. Vita di canivecchiu, dormire e mangiare quello che gli altri ci portavano.


Le monete erano sempre pronte, Pino se le metteva nella tasca del grembiule, poi rientrando, le lasciava a Mimma.


Mimma rideva, e le faceva suonare quando cadevano nel cassetto sotto al bancone.


La mattinata andava avanti così, magari passava il sindaco, oppure una coppia di carabinieri veniva a prendere le tazze calde per il Maresciallo.


All’una, Mimma e Pino chiudevano la porta, e se ne andavano a casa a mangiare.


Mimma si attaccava al braccio di Pino, e traversavano la piazza in diagonale, con un’andatura sbilenca. Sembravano un peschereccio con la lancia a rimorchio, col mare grosso.


 


Era sciancata da quando era nùtrica.


Quando la picciridda era nata si era capito subito che qualcosa, nelle gambette, era sbagliato; la madre allora l’aveva portata dallo specialista, a Palermo.


Il Professore taliò Mimma per dieci minuti, la girò, la piegò, ci torciu le ginocchia e le coscette, Mimma prima rideva poi si misi a chianciri, angustiata, col risucchio.


Mentre sua madre la annacava per farla quietare, e il singulto scuoteva la picciridda, il professore si levò l’occhiali e parlò.


 


Se ne tornarono al paese con la corriera, Mimma e sò matri.


“La carusa ti vinni sciancata perché l’hai fatta fuori dal matrimonio, fuori dalla grazia di Dio…”. Non lo fece finire di parlare, al parrino che sibilava dietro la grata del confessionale, se ne uscì dalla chiesa, e non ci sarebbe più rientrata.


La picciridda attaccata alla minna, cullata dallo scuotimento del vecchio autobus, la madre abbracciata alla busta gialla con i raggi X, lussazione congenita dell’anca, aveva scritto il Professore, e poi si era messo in sacchetta le cinquemila lire che la madre di Mimma aveva messo sul piano di cristallo della scrivania.


 


Quando Mimma aveva ventuno anni, la madre morì. La trovò la mattina nel letto, con il rosario sul petto, e un foglio di carta nel cassetto del comodino diceva che restava tutto a sua figlia Mimma. Al funerale si presentarono i parenti venuti da Lascari, lo zio Franco, la cani rognosa di sua zia Michelina, i cugini, figli di cane.


Ci restarono male quando scoprirono che la casa e la vigna, che erano stati della loro famiglia, se li pigliava Mimma. Erede universale, aveva detto il farmacista, il dottore Antonio Quattrocchi, il fratello del Notaio Quattrocchi che aveva il brutto vizio di sentenziare in latino mentre masticava tabacco, mettendosi sul naso i pince-nez dorati.


Quando tutti se ne furono andati, il farmacista ci disse che avrebbe voluto chiedere a sua madre se la mandava ad aiutarlo in farmacia, però ora che era rimasta sola, si sarebbe dovuta occupare del bar. Non si poteva lasciare il bar al garzone, “lo capisci, Mimma? E’ l’occhio del padrone che ingrassa il cavallo”. Mimma abbassò gli occhi, e fece sì con la testa. “Mimma, se qualcuno ti viene a dire sposiamoci, dicci di sì, lo sai che hai bisogno d’aiuto”.


La ragazza si mise a piangere, “dutturi, lo sapete che nessuno mi piglierà, sono sciancata, chi la vuole una moglie sciancata? La domenica, al belvedere, le altre ragazze camminano diritte attaccate al braccio dei loro mariti, e io sempre sola sugnu.”


Il farmacista prese dalla tasca della giacca un fazzoletto bianco di lino, e lo diede a Mimma, “asciugati le lacrime, vedrai che anche tu avrai un marito, sei bella, e forte, e quando ridi…”.


Si morse la lingua, il farmacista; ormai era anziano, altrimenti se la sarebbe sposata lui, a Mimma dai capelli rossi, a Mimma che rideva sempre.


Strinse il fazzoletto umido e se lo rimise nel taschino, reprimendo a malapena un sospiro.


 


Il massaro del farmacista aveva tre figli, due erano forti come cavalli da tiro, il terzo, il più piccolo, gli era venuto così così, né forte né debole, né cretino né intelligente. Negato per il lavoro della campagna, si era ostinato ad andare a scuola ma lo avevano bocciato alla licenza media. Questo ragazzo, Pino si chiamava, aiutava il farmacista, senza fare troppi danni. Posso restare anche con un solo impiegato, si disse il dottore Antonio, e un giorno portò Pino al bar, e lo presentò a Mimma.


“Chiudi la porta, che vi devo parlare”.


Dopo tre mesi, Mimma e Pino si sposarono, al municipio, che di entrare in chiesa Mimma non ne voleva sapere.


Il paese mormorò, poi tutti tornarono a farsi i fatti loro.


Tutti i giorni all’una, Mimma e Pino chiudevano la porta del bar, e se ne andavano a casa a mangiare.


Mimma si attaccava al braccio di Pino, e traversavano la piazza in diagonale, con un’andatura sbilenca. Sembravano un peschereccio con la lancia a rimorchio, col mare grosso.


Passando davanti alla farmacia, Mimma salutava il dottore Antonio che stava chiudendo la porta pure lui, e rideva.


 


Il farmacista stava diventando vecchio, e fare le cose gli veniva difficile. Su consiglio del fratello notaio, si fece venire a casa una fimmina, una donna che veniva dall’Est.


“vedrai, ti terrà tutto a posto, e poi sanno lavorare duro, senza protestare, e soprattutto, non scassano la minchia, perché al loro paese hanno fame, quindi…” aveva detto sogghignando il Notaio Quattrocchi, mentre organizzava telefonicamente l’arrivo di una badante ucraina a casa del farmacista.


La badante aveva una figlia giovane, una ragazza secca e alta, bionda lavatizza, che non parlava, non rideva, stava sempre allato alla madre. Il farmacista decise che questa ragazza, Svetlana si chiamava, avrebbe fatto comodo al bar, avrebbe aiutato Mimma, magari solo a lavare le tazze, a passare la scopa e lo straccio, a fare quelle cose pesanti che Mimma faceva con amore e fatica.


I paesani ridevano quando ci dicevano cose a Svetlana. Prima ci cambiarono il nome. “Stella, viene più facile”, disse il maresciallo dei carabinieri. Quella pareva che faceva finta di non capire, e rideva pure lei.


Alla stagione calda, Stella si cambiò i pantaloni neri che aveva indossato per tutto l’inverno, e si mise una minigonna a pieghe color melanzana. Con la camicetta bianca e il grembiule, faceva la sua figura, non pareva più tanto pallida e moscia.


Ora i paesani ci ridevano più forte, e mentre faceva avanti e indietro per portare i cafè al tavolino, da qualche parte si sentiva “minchia che cosce!”.


Mimma non si preoccupava, in fondo lei era la padrona, aveva un marito, e anche se bambini non ne arrivavano, era felice lo stesso.


Non si preoccupava Mimma, però quella era sempre con le cosce in bella vista, e rideva, e si guardava in giro, e i giocatori di tressette la chiamavano di continuo “Stella due birre, Stella, duci, porta tre cafè” e subito dopo dicevano guardandola in faccia che tanto erano sicuri che lei non capisse niente “Stella, bedda, ah chi ti facissi”.


Pure Pino, pareva che quella c’avesse il miele sul culo, era sempre girato a taliarisilla. E guardava, eccome se guardava.


A metà di luglio finalmente Mimma capì che si doveva preoccupare.


 


Stella era scesa nel seminterrato a pigliare un cartone di bottigliette di gazzosa, e Pino c’aveva detto “aspetta ca t’aiuto”.


Era sceso pure lui. Mimma cominciò a contare mentalmente i secondi che passavano, e sentiva la pressione che le saliva, e la fronte e la pettorina diventare rosse, non solo per la caloria di luglio, ma pure perché nella testa ci giravano idee che facevano sudare.


Dopo che ebbe contato fino a trecento, Mimma mollò l’ormeggio del bancone del bar, zuppichiò fino alla scala del seminterrato, cominciò a scendere i gradini ad uno ad uno, stando attenta a non fare scruscio con i sandali e soprattutto a non arruzzolarsi per le scale.


Arrivò al ballatoio, si appoggiò alla graticella impolverata da cui entrava la poca luce che illuminava il seminterrato e vide quello che non voleva vedere. Quasi ci pigliò una sincope quando vide quella finta gatta morta di Stella che, appoggiata al tavolinetto a gambe larghe si pigliava tutto il bendiddio di suo marito che aveva i pantaloni calati a metà, e rantolava sotto i colpi di quel porco.


Risalì di nuovo gli scalini ad uno ad uno, piano, che oltretutto ci girava la testa, avendo negli occhi il movimento di biscie in calore di quei due lassotto.


Si appoggiò al bancone, il piano di metallo freddo l’aiutò a fare sbollire il sangue, aprì il rubinetto e si lavò la faccia.


“Questa me la pagate, tutti e due” si disse a bassa voce mentre si asciugava il viso nello strofinaccio pulito.


Nei giorni seguenti Mimma ci fece caso, che quando Stella scendeva nel seminterrato aveva gli occhi spiritati e il respiro pesante, subito dopo suo marito scendeva pure lui “l’aiuto, le cassette di birra pesanti sono” e poi risalivano rossi, accaldati, e quella la taliava con uno sguardo di sfida.


Mimma si battè la mano sulla gamba offesa “sciancata sì, minchiona no”.



Si era portata da casa un panierino, ad un certo punto ci disse al marito di andare in campagna a raccogliere i gelsi neri vicino al pozzo, che voleva fare la granita. Come lui si fu allontanato, chiamò la ragazza.


Quella entrò dentro al bar, e la tenda di catenelle tintinnò fresca, mescolandosi alla risata di Stella.


“Stella, fammi un favore” disse Mimma “ scendi giù, il posto lo sai, e mi pigli quel pacco di caffè che c’è sul tavolo”.


La ragazza si guardò in giro, come a cercare Pino, poi si affacciò alla scala, e fece per scendere il primo gradino.


I venti scalini se li fece a ruzzolare, sbattendo come un sacco vecchio, finchè non si fermò faccia a terra, nel ballatoio.


Sentì il passo zoppo di Mimma scendere per le scale, “cadisti, ti facisti male? Chi ti facisti?”


La picciotta piangeva piano, e si toccava la gamba. Tentò di rimettersi in piedi ma ricadde come una bambola di pezza, gridando dal dolore.


Mimma si accorse che quella aveva una gamba rotta, si avvicinò all’orecchio di Stella, che gridava e imprecava nella sua lingua “ora t’aiuto, ora t’aiuto io” le disse, si abbassò e le torse l’arto fratturato, Stella buttò un grido più forte, poi svenne.


“ora a finisti di fare la buttana con mio marito” disse Mimma  “ e se ti vuole ancora ti troverà sciancata, comammìa”.



Dopo alcuni mesi di cure, Stella riprese a lavorare al bar. A scendere nel seminterrato non ce la faceva più. Ricominciò ad usare i pantaloni neri di panno sotto al grembiule.


Ancora oggi, Mimma e Pino all’una chiudono la porta del bar, e se ne vanno a casa a mangiare.


Mimma si attacca al braccio di Pino, e traversano la piazza in diagonale, con un’andatura sbilenca. Sembrano un peschereccio con la lancia a rimorchio, col mare grosso. A due passi li segue Stella vestita di nero, che zuppichia ancora come un albatro tisico.


Passando davanti alla farmacia, Mimma si volta verso la saracinesca , chiusa da anni, abbassa gli occhi e non ha più voglia di ridere.

domenica 20 aprile 2008

da un'altra parte

inizio della storia

















da un'altra parte, sulle sponde di un oceano, ci sono specchi in cui vedersi, un pò diversi.

discesa al fiume

































ci sono strade che portano al fiume, che però è anche mare, che salgono e anche scendono.

colazione sulle scale

























può succedere che per bere un caffè si debbano salire delle scale, e poi fermarsi un pò.

antico e moderno













antico e moderno convivono, apparentemente senza ostacolarsi.

giochi nella piazza












a sera, si gioca nella piazza, fino a quando l'ultimo bagliore lo permette.

donne sull



















da un'altra parte, ci sono sempre donne attaccate ad un telefono, che non si sa mai.

(quest'altra parte è Lisbona. Ci tornerò)

domenica 13 aprile 2008

Avviso e figlia della badante


Sarò assente nei prossimi giorni. Mi troverete nel posto della foto. Comunque aggiungo un altro capitolo de "la figlia della badante". Mi piacerebbe sapere, visto che è la penultima parte, come pensate che vada a finire. Io ho già scritto una conclusione, ma non si sa mai. Ci ritroviamo venerdì prossimo, e vi assicuro che non comprerò giornali italiani per sapere come è finito il concorso a 600 posti di deputato della repubblica.


la figlia della badante. Parte 4


La badante aveva una figlia giovane, una ragazza secca e alta, bionda lavatizza, che non parlava, non rideva, stava sempre allato alla madre. Il farmacista decise che questa ragazza, Svetlana si chiamava, avrebbe fatto comodo al bar, avrebbe aiutato Mimma, magari solo a lavare le tazze, a passare la scopa e lo straccio, a fare quelle cose pesanti che Mimma faceva con amore e fatica.


I paesani ridevano quando ci dicevano cose a Svetlana. Prima ci cambiarono il nome. “Stella, viene più facile”, disse il maresciallo dei carabinieri. Quella pareva che faceva finta di non capire, e rideva pure lei.


Alla stagione calda, Stella si cambiò i pantaloni neri che aveva indossato per tutto l’inverno, e si mise una minigonna a pieghe color melanzana. Con la camicetta bianca e il grembiule, faceva la sua figura, non pareva più tanto pallida e moscia.


Ora i paesani ci ridevano più forte, e mentre faceva avanti e indietro per portare i cafè al tavolino, da qualche parte si sentiva “minchia che cosce!”.


Mimma non si preoccupava, in fondo lei era la padrona, aveva un marito, e anche se bambini non ne arrivavano, era felice lo stesso.


Non si preoccupava Mimma, però quella era sempre con le cosce in bella vista, e rideva, e si guardava in giro, e i giocatori di tressette la chiamavano di continuo “Stella due birre, Stella, duci, porta tre cafè” e subito dopo dicevano guardandola in faccia che tanto erano sicuri che lei non capisse niente “Stella, bedda, ah chi ti facissi”.


Pure Pino, pareva che quella c’avesse il miele sul culo, era sempre girato a taliarisilla. E guardava, eccome se guardava.


A metà di luglio finalmente Mimma capì che si doveva preoccupare.


 


Stella era scesa nel seminterrato a pigliare un cartone di bottigliette di gazzosa, e Pino c’aveva detto “aspetta ca t’aiuto”.


Era sceso pure lui. Mimma cominciò a contare mentalmente i secondi che passavano, e sentiva la pressione che le saliva, e la fronte e la pettorina diventare rosse, non solo per la caloria di luglio, ma pure perché nella testa ci giravano idee che facevano sudare.


Dopo che ebbe contato fino a trecento, Mimma mollò l’ormeggio del bancone del bar, zuppichiò fino alla scala del seminterrato, cominciò a scendere i gradini ad uno ad uno, stando attenta a non fare scruscio con i sandali e soprattutto a non arruzzolarsi per le scale.


Arrivò al ballatoio, si appoggiò alla graticella impolverata da cui entrava la poca luce che illuminava il seminterrato e vide quello che non voleva vedere. Quasi ci pigliò una sincope quando vide quella finta gatta morta di Stella che, appoggiata al tavolinetto a gambe larghe si pigliava tutto il bendiddio di suo marito che aveva i pantaloni calati a metà, e rantolava sotto i colpi di quel porco.


Risalì di nuovo gli scalini ad uno ad uno, piano, che oltretutto ci girava la testa, avendo negli occhi il movimento di biscie in calore di quei due lassotto.


Si appoggiò al bancone, il piano di metallo freddo l’aiutò a fare sbollire il sangue, aprì il rubinetto e si lavò la faccia.


“Questa me la pagate, tutti e due” si disse a bassa voce mentre si asciugava il viso nello strofinaccio pulito.


Nei giorni seguenti Mimma ci fece caso, che quando Stella scendeva nel seminterrato aveva gli occhi spiritati e il respiro pesante, subito dopo suo marito scendeva pure lui “l’aiuto, le cassette di birra pesanti sono” e poi risalivano rossi, accaldati, e quella la taliava con uno sguardo di sfida.


Mimma si battè la mano sulla gamba offesa “sciancata sì, minchiona no”.



 

venerdì 11 aprile 2008

recensione o recessione?

Immag011













Appunto. Proprio per questo, vi informo che di Fulminati si è scritto qui qui, qui qui e qui. Tutte persone al disopra di ogni sospetto, blogstar addirittura. E per quelli di stomaco forte,  qui  (sono circa 54 mega da scaricare )ci trovate una intervista  (andata in onda il 2 aprile) dei tre Fulminati ad una tv locale.

giovedì 10 aprile 2008

la figlia della badante-parte 3


 


Quando tutti se ne furono andati, il farmacista ci disse che avrebbe voluto chiedere a sua madre se la mandava ad aiutarlo in farmacia, però ora che era rimasta sola, si sarebbe dovuta occupare del bar. Non si poteva lasciare il bar al garzone, “lo capisci, Mimma? E’ l’occhio del padrone che ingrassa il cavallo”. Mimma abbassò gli occhi, e fece sì con la testa. “Mimma, se qualcuno ti viene a dire sposiamoci, dicci di sì, lo sai che hai bisogno d’aiuto”.


La ragazza si mise a piangere, “dutturi, lo sapete che nessuno mi piglierà, sono sciancata, chi la vuole una moglie sciancata? La domenica, al belvedere, le altre ragazze camminano diritte attaccate al braccio dei loro mariti, e io sempre sola sugnu.”


Il farmacista prese dalla tasca della giacca un fazzoletto bianco di lino, e lo diede a Mimma, “asciugati le lacrime, vedrai che anche tu avrai un marito, sei bella, e forte, e quando ridi…”.


Si morse la lingua, il farmacista; ormai era anziano, altrimenti se la sarebbe sposata lui, a Mimma dai capelli rossi, a Mimma che rideva sempre.


Strinse il fazzoletto umido e se lo rimise nel taschino, reprimendo a malapena un sospiro.


 


Il massaro del farmacista aveva tre figli, due erano forti come cavalli da tiro, il terzo, il più piccolo, gli era venuto così così, né forte né debole, né cretino né intelligente. Negato per il lavoro della campagna, si era ostinato ad andare a scuola ma lo avevano bocciato alla licenza media. Questo ragazzo, Pino si chiamava, aiutava il farmacista, senza fare troppi danni. Posso restare anche con un solo impiegato, si disse il dottore Antonio, e un giorno portò Pino al bar, e lo presentò a Mimma.


“Chiudi la porta, che vi devo parlare”.


Dopo tre mesi, Mimma e Pino si sposarono, al municipio, che di entrare in chiesa Mimma non ne voleva sapere.


Il paese mormorò, poi tutti tornarono a farsi i fatti loro.


Tutti i giorni all’una, Mimma e Pino chiudevano la porta del bar, e se ne andavano a casa a mangiare.


Mimma si attaccava al braccio di Pino, e traversavano la piazza in diagonale, con un’andatura sbilenca. Sembravano un peschereccio con la lancia a rimorchio, col mare grosso.


Passando davanti alla farmacia, Mimma salutava il dottore Antonio che stava chiudendo la porta pure lui, e rideva.


 


Il farmacista stava diventando vecchio, e fare le cose gli veniva difficile. Su consiglio del fratello notaio, si fece venire a casa una fimmina, una donna che veniva dall’Est.


“vedrai, ti terrà tutto a posto, e poi sanno lavorare duro, senza protestare, e soprattutto, non scassano la minchia, perché al loro paese hanno fame, quindi…” aveva detto sogghignando il Notaio Quattrocchi, mentre organizzava telefonicamente l’arrivo di una badante ucraina a casa del farmacista.


(3-continua)

martedì 8 aprile 2008

Sappiate che...

ricevo dal mio amico libraio Fabrizio (di modusvivendi)

Un appuntamento da non perdere a Palermo mercoledì 9 aprile alle ore 11. Nell'aula magna della Facoltà di Lettere e Filosofia sarà presente infatti la grande poetessa e scrittrice polacca Wislawa Szymborska, premio Nobel per la letteratura 1996. La Szymborska incontrerà gli studenti e il pubblico presente, e verranno lette alcune delle sue poesie, pubblicate da Adelphi e Scheiwiller. Interverrà il direttore dell'Istituto Polacco Jaroslaw Mikolajewski.


venerdì 4 aprile 2008

La figlia della badante-parte 1 e 2


(quadro prestato da Luigi Perrella)



 




Mimma era una bella figliola. Alta, sciacquata, Rossa di capelli, due occhi da furetto che scavavano dentro quando ti taliavano.


Eppoi aveva il bar. Di fronte al Municipio, allato alla caserma dei Carabinieri.


 Cafe! un  cafè, due cafè!Mimma  tre cafè!.


Queste erano le voci che si sentivano la mattina, quando la porta del bar era aperta, e Pino aveva uscito i tavolini di metallo sul marciapiedi.


Poi Pino pigliava la catasta di sedie e la metteva fuori. Chi si voleva assittare acchiappava una seggia e la metteva a terra, vicino al tavolo.


Magari poi arrivava un altro, ci diceva a quello che era seduto “nnà facemu una partita a scopa?”


“chi perde paga i cafè”.


I cafè potevano diventare quattro, o cinque, o chiàssai, se altri si andavano ad assittare per taliare i giocatori.


E Mimma rideva, e faceva cafè. Pino metteva le tazze calde nel tabarè rotondo, quello con la stella della marca della birra, e li portava fuori.


La tenda faceva scruscio, le mosche volavano via, il cane acciambellato all’angolo della piazza alzava un orecchio e apriva l’unico occhio buono, poi ripigliava a dormire. Vita di canivecchiu, dormire e mangiare quello che gli altri ci portavano.


Le monete erano sempre pronte, Pino se le metteva nella tasca del grembiule, poi rientrando, le lasciava a Mimma.


Mimma rideva, e le faceva suonare quando cadevano nel cassetto sotto al bancone.


La mattinata andava avanti così, magari passava il sindaco, oppure una coppia di carabinieri veniva a prendere le tazze calde per il Maresciallo.


All’una, Mimma e Pino chiudevano la porta, e se ne andavano a casa a mangiare.


Mimma si attaccava al braccio di Pino, e traversavano la piazza in diagonale, con un’andatura sbilenca. Sembravano un peschereccio con la lancia a rimorchio, col mare grosso.




   parte 2



Era sciancata da quando era nùtrica.


Quando la picciridda era nata si era capito subito che qualcosa, nelle gambette, era sbagliato; la madre allora l’aveva portata dallo specialista, a Palermo.


Il Professore taliò Mimma per dieci minuti, la girò, la piegò, ci torciu le ginocchia e le coscette, Mimma prima rideva poi si misi a chianciri, angustiata, col risucchio.


Mentre sua madre la annacava per farla quietare, e il singulto scuoteva la picciridda, il professore si levò l’occhiali e parlò.


 


Se ne tornarono al paese con la corriera, Mimma e sò matri.


“La carusa ti vinni sciancata perché l’hai fatta fuori dal matrimonio, fuori dalla grazia di Dio…”. Non lo fece finire di parlare, al parrino che sibilava dietro la grata del confessionale, se ne uscì dalla chiesa, e non ci sarebbe più rientrata, da viva almeno.


La picciridda attaccata alla minna, cullata dallo scuotimento del vecchio autobus, la madre abbracciata alla busta gialla con i raggi X, lussazione congenita dell’anca, aveva scritto il Professore, e poi si era messo in sacchetta le cinquemila lire che la madre di Mimma aveva messo sul piano di cristallo della scrivania.


 


Quando Mimma aveva ventuno anni, la madre morì. La trovò la mattina nel letto, con il rosario sul petto, e un foglio di carta nel cassetto del comodino diceva che restava tutto a sua figlia Mimma. Al funerale si presentarono i parenti venuti da Lascari, lo zio Franco, la cani rognosa di sua zia Michelina, i cugini, figli di cane.


Ci restarono male quando scoprirono che la casa e la vigna, che erano stati della loro famiglia, se li pigliava Mimma. Erede universale, aveva detto il farmacista, il dottore Antonio Quattrocchi, il fratello del Notaio Quattrocchi che aveva il brutto vizio di sentenziare in latino mentre masticava tabacco, mettendosi sul naso i pince-nez dorati.



(2-continua)