venerdì 30 ottobre 2009

figghia di buttana (III parte)

Mimma mi strinse il polso con una forza che non pensavo potesse esprimere, dopo una settimana di coma. “mia figlia, dov’è mia figlia”, disse con un rantolo roco. Guardai la vecchia accanto al letto, che continuò impassibilmente a rosicchiare grissini.

“Ora mi informo”, risposi con evidente imbarazzo. Mimma sembrò accontentarsi della risposta, liberò il mio polso dalla stretta, e si abbandonò sul cuscino, lamentandosi piano.

Telefonai all’assistente sociale. “Te la ricordi quella che abbiamo ricoverato in coma, Mimma, Mimma la buttana? Ma ci siete andati a casa? Vi siete informati bene all’anagrafe?”

Enza, l’assistente sociale era una che bastava poco a farla irritare, e mi rispose con voce acida che tutto quello che c’era da fare era stato fatto, e non risultava niente, nè a casa nè all’anagrafe.

“Mimma mi disse che ha una bambina, sì una figlia, e ora vuole sapere da noi dov’è”.

“Quella è pazza” sentenziò Enza “la malattia le ha squagliato il cervello”.

Chiusi la comunicazione, restai a guardare il telefono e la finestra, poi decisi che dovevo fare qualcosa, anche per evitare che quella si rimettesse a fare casino in reparto. Se però avessi avuto Enza tra le mani, l’avrei strangolata.

Alle due meno dieci arpionai Michele, un collega appena arrivato, che sapevo possessore e conducente di una vespa rallye, e gli intimai “accompagnami da una parte”, sfruttando il carisma inevitabile del collega anziano.

Michele bestemmiò qualcosa in bagherese stretto, ma non riuscì a sottrarsi; del resto non gli conveniva, mi doveva almeno un paio di favori, avendolo sottratto alle ire del primario dopo alcune sue non proprio felici intuizioni diagnostiche.

Timbrammo il cartellino alle quattordici precise, per non correre il rischio di regalare qualche prezioso minuto all’ingrata amministrazione dell’ospedale, e poi Michele serpeggiò nel traffico fino alla via Montegrotte.

“Ferma, ferma, è qui” gli urlai da sotto il casco, Michele inchiodò, la vespa si arrestò cigolando.

venerdì 23 ottobre 2009

figghia di buttana (seconda parte)





(immagine di Aapo Rapi)



Una settimana in coma era rimasta, e la madre non si era mai allontanata dal letto della figlia, consumava il pasto lì, nonostante i rimbrotti delle infermiere, che però a poco a poco smisero, tanto la vecchia non parlava, non si muoveva, non chiedeva niente.Poi, dopo una settimana, la donna si risvegliò dal suo stato di incoscienza, le infermiere le sistemarono meglio il letto, le tolsero i sondini per l’alimentazione artificiale, le diedero da mangiare.Mentre inghiottiva voracemente la pastina, Mimma si fermò col cucchiaio a mezz’aria.

 “La picciridda”.

La madre restò impassibile sulla sua sdraio.

“La picciridda”, disse di nuovo Mimma. La parente di una paziente ricoverata nel letto accanto a quello di Mimma si voltò, facendo una smorfia con la bocca sibilò “ma quale picciridda, qui picciridde un sinni vittiru”.

Mimma fece cadere il piatto con la pastina a terra, alzò le mani al cielo e poi buttò una voce acutissima “la picciriddaaa!”. La madre restò di legno, i parenti degli altri pazienti si murmuriarono, una più battezzata degli altri si avvicinò, le prese una mano tra le sue, le disse “non gridare, che gli altri malati si scantano, capace che ne muore qualcuno, ma di quale picciridda parla, qui picciridde non se ne sono viste”.

Mimma sembrò non sentire quelle parole, e continuò a urlare, finchè il trambusto non richiamò le infermiere ed il medico di guardia. Il medico di guardia ero io, e per evitare che quella facesse ancora bordello e invitasse pure gli altri ricoverati a gridare per qualche motivo, presi una siringa contenente un sonnifero ad azione rapida e mi avvicinai al letto per iniettarglielo nel catetere che collegava la flebo al braccio.

“dottore, dottore”, Mimma mi artigliò la mano, “dottore mi facissi parlare, ci devo dire una cosa”. Mimma era rauca, le guance incendiate. Mi misi la faccia del medico severo: “parli subito, ma l’avviso, che se si mette di nuovo a gridare, l’addormento finchè non la dimettiamo”.



(2-continua)

domenica 18 ottobre 2009

figghia di buttana



(immagine di aapo rapi)



Era arrivata in reparto in condizioni disperate, affetta da  insufficienza renale acuta, causata da una infezione non curata. L’accompagnava una vecchia, dai capelli color ruggine tutti arruffati, lo sguardo perso, rispondeva solo sì e no. Scoprimmo presto che la vecchia era la madre della donna ricoverata. Si piazzò sulla sedia a sdraio lurida che si era trascinata dietro e non si mosse più dal letto della figlia.

Avevo domandato al tipo che l’aveva portata, praticamente trascinandola, in ospedale, se lui fosse un parente, ma quello aveva risposto no, e poi, schifato, aveva detto “e che sono parente di una buttana io?”.

Come si chiama, gli avevo chiesto. Mimma, aveva risposto quello. Mimma come? Mimma la buttana aveva ribattuto il tizio. Ma non ce l’ha un cognome, avevo insistito. Non lo so, nel rione la conosciamo tutti così, Mimma la buttana.

Una buttana. Alla via Montegrotte la conoscevano tutti, andava via appena il sole tramontava e tornava a casa, se ci tornava, a giorno fatto, si chiudeva in un magazzino lurido, la madre metteva una sedia davanti alla porta e restava lì tutto il giorno, ad intossicarsi di smog e sigarette. Avevo provato a chiedere alla vecchia altre informazioni, ma era inutile, quella il cervello se l’era fottuto molto tempo prima, rispondeva sì se le si chiedeva se aveva sete o fame, rispondeva no a tutte le altre domande, non rispondeva per nulla se la si interrogava sulla vita della figlia, o su dove abitassero, o su cosa facessero per sostentarsi. Allertammo i servizi sociali, Mimma non aveva parenti in città, una sorella conduceva una vita normale in un’altra regione e non fu sorpresa di sapere che Mimma si trovava ricoverata in gravi condizioni. “Non ci sentiamo da vent’anni” mi disse al telefono, “lo sapevo che faceva una malafine”.



(1-continua)

lunedì 12 ottobre 2009

linee aeree puffe e gli occhi di vent'anni (che non ho più)



Linee aeree Puffe



Me lo dovevo proprio immaginare. Appena ho visto quell’aereo dipinto di blu, ho capito. Infatti, il signore seduto. Anzi, meglio dire incastrato, nel sedile. Dunque, il signore incastrato nel sedile accanto a me ha cominciato subito a lamentarsi. E aveva ragione, l’aereo era blu perchè era quello delle linee aeree Puffe.



Sissignore, i Puffi avrebbero viaggiato benissimo , ma esseri umani di taglia normale sarebbero stati in grandi difficoltà, proprio come il signore seduto accanto a me, dall’alto dei suoi 197 cm, ed anch’io, dal basso dei miei 175 cm di statura.



Il signore accanto a me era un giornalista tedesco, uno di quelli che ha studiato in italia, affascinato dalla romanità, ma che mi ha dovuto confessare che, dopo essere tornato in Italia per lavorare come corrispondente della televisione tedesca, “più tempo passo in Italia, meno la capisco...”.



Petit France a Strasburgo e il figlio lontano.



sera a strasburgo

























































(foto di medicineman)



Strasburgo, molto meglio di quanto mi fossi immaginato. Piccola, ma non provinciale, un gran numero di giovani in giro, anche la sera, quando solitamente nelle città di provincia, specialmente se il clima non aiuta, tutti restano tappati a casa. A Strasburgo sabato sera, dopo l’impegno del congresso (non parlo ai congressi, semplicemente mi piazzo allo stand della società per cui lavoro e alleno il sorriso e l’inglese, oltr a fornire spiegazioni rilassanti su come siano buoni i farmaci che stiamo propagandando) mi ha raggiunto mio figlio. Già, a fine agosto, quasi a tradimento, è partito per fare l’Erasmus in Francia. Non sapevo che avesse queste intenzioni finchè non ci ha comunicato che era stato accettato nel programma e che sarebbe venuto a vivere in Francia per qualche mese. Sabato sera siamo stati insieme, siamo andati a cenare in un ristorante carino, non eravamo soli, lui ha dato a tutti l’idea di essere uno con le idee chiare, un bravo ragazzo studioso insomma. Non è solo un’idea, corrisponde abbastanza alla realtà.



Ho noleggiato una macchina in aeroporto, appena arrivato, avevamo concordato, col figlio, che lo avrei riportato in auto nella cittadina della regione remota in cui si trova la sua università. E così abbiamo fatto.



Il giro è stato un pò lungo, abbiamo attraversato quattro nazioni, sperimentando panorami differenti tra Francia, Belgio, Germania, Lussemburgo. Arrivati in Lussemburgo (la visita della capitale è un pò deludente, in meno di un’ora si vede tutto il centro) siamo stati accolti dal granduca che è arrivato con la sua macchinona ed un autista a presenziare ad una cerimonia militare; la banda era un pò scalcinata, non quello che ti aspetti di vedere in una delle capitali dell’esportazione di valuta, ma tant’è.







arriva il granduca

































(foto di medicineman)



colori autunnali









































(foto di medicineman)



Poi finalmente, dopo un lungo viaggio piovoso, siamo arrivati a destinazione. Ho sentito una strana sensazione di disagio, e non era il clima. Dopo che ho visto l’alloggio cubicolare in cui passerà i prossimi mesi, il cuore mi si è ristretto, come dopo un lavaggio in lavatrice col programma sbagliato. Mi sono chiesto perchè ha voluto punirsi abbandonando le comodità domestiche, le amicizie consolidate, l’uso di tutto quello che può servire ad un ragazzo di vent’anni , trasferendosi in un posto triste, alloggiando in una tana triste, condividendo con altri ragazzi uno spazio comune che sembra la sala d’aspetto di una stazione ferroviaria periferica, in cui l’unico conforto è indossare un auricolare e connettersi con skype agli affetti rimasti altrove. Da una parte i ragazzi e le ragazze europei, dall’altra quelli con problemi religiosi. Si, ho scritto bene, quelli con il problema di essere musulmani.



Forse, è colpa mia, che non ho più gli occhi di quando avevo vent’anni. Sicuramente è colpa mia.



Nel frattempo non ha smesso di piovere, avevo un lungo viaggio di ritorno, per reimmettermi nella routine delle mie attività paracongressuali, mi sono rimesso in auto, il mio viso si è bagnato, e non era pioggia.







a proposito di pioggia, oggi mentre aspettavo di decollare è passata una tromba d'aria sull'aeroporto di Fiumicino. Ho immortalato l'arcobaleno smagliante spuntato subito dopo.



dopo la tromba d





















































(foto di medicineman)



martedì 6 ottobre 2009

sabato 3 ottobre 2009

confesso, ebbene sì





Ebbene, confesso di avere abboccato pure io. Finora, mi pare che non serva a nulla. Ho rovistato negli scatoloni della memoria ed ho tirato fuori persone che di me non si ricordano. Meglio così. E'un pò tossico? Forse, vedremo. Intanto la mia faccia è qui .