martedì 1 novembre 2011

lo zio englebert (ovvero come ho trovato un racconto completo dentro un sogno)


Mi sono svegliato, sapendo già che mi sarei messo  a scrivere questo racconto. Nelle fasi rem mi si era srotolato dentro la testa, mentre facevo colazione (e infatti ci sono ancora tracce di marmellata sulla tastiera del pc) l'ho scritto, così come lo avevo sognato. Sapevo anche che se avessi rimandato al pomeriggio, probabilmente lo avrei dimenticato. Eccolo:

 





Avevo perso il lavoro, il proprietario del negozio di armi che mi aveva assunto tre mesi prima era stato arrestato per una storia di tasse non pagate: era venuta l’Fbi, avevano messo sottosopra l’ufficio e poi se l’erano portato via in manette. Poi un ciccione aveva messo i sigilli alla porta e mi aveva detto “arrangiati”. Io ero rimasto per un po’ appoggiato al palo della luce sul marciapiedi, poi ero tornato a casa. Sistemate le mie cose in due scatoloni, scrissi un biglietto al padrone di casa che lasciai sul tavolo di formica  della cucina, misi le chiavi nel portavaso della pianta finta davanti l’uscio e me ne andai. In strada telefonai a mia madre, che non sembrò sorpresa  del fatto che fossi rimasto senza lavoro: mi disse che se volevo, lo zio Englebert aveva bisogno di assistenza medica, e che avrei potuto andare da lui per qualche tempo. “ma è in Florida” obiettai mentre due negri guardavano con cupidigia gli scatoloni fuori dalla cabina telefonica "arrangiati, sei adulto" rispose mia madre. “Che vendi” mi chiese il negro più anziano, “pentole, libri, una radiolina a transistor e qualche altra stronzata”. Vollero vedere gli oggetti uno ad uno, rigirandoseli tra le mani e poi gli dissi “datemi trenta dollari e vi lascio tutto, pure le scatole”. Presi i trenta dollari e andai a piedi alla fermata del greyhound, comprai il biglietto per Cape Canaveral e mi sedetti sulla panca di legno ad aspettare che passasse l’autobus. A un certo punto mi venne fame, dentro la stazione dei bus c’era uno Starbucks, l’impiegata al banco sembrava una faina annoiata, comprai una ciambella e un caffè, e ritornai ad aspettare.

 



 

 


Lo zio Englebert era stato avvertito da mia madre, e si fece trovare a letto: lo conoscevo poco, e di lui ricordavo un certo lugubre umorismo, che alle cene di Natale, quando ancora vivevamo tutti a Filadelfia, contrastava con l’allegria standard dei miei genitori, e di noi figli, che non vedevamo l’ora di piantare i denti nel monumentale tacchino che troneggiava al centro del tavolo. Quello invece pregava anche per l’anima del tacchino morto, salvo poi mangiarsene la pelle e le cartilagini che rimanevano nei piatti.

Le cure mediche di cui necessitava consistevano nel passargli i pacchetti di fazzoletti di carta con cui si soffiava il naso ogni cinque minuti, nel prendere delle compresse dalle confezioni, riempire un bicchiere d’acqua e passargliele. Il farmacista aveva dato allo zio una specie di rastrelliera in cui alloggiare le pillole della giornata: al mattino, quando le sistemavo, sembravano uno di quegli spartiti per bambini con le note colorate, tramite i quali si imparava a suonare Jingle Bells sul pianoforte giocattolo, che aveva appunto dei dischetti di colore diverso sui tasti. Era talmente facile che dopo dieci minuti di suonare il piano veniva voglia di cambiare gioco.

 

Una mattina, mentre in bagno mi stavo radendo davanti allo specchio, sentii lo zio che si trascinava lungo il corridoio, pensai che dovesse fare la seconda pisciata della mattina, ma quando con la coda dell’occhio lo vidi affacciarsi alla porta mi accorsi che aveva preso la mia pistola, quella che mi aveva prestato il proprietario del negozio di armi prima che l’arrestassero “se viene qualche faccia di merda, piantagliela in bocca, vedrai che cambia aria” aveva detto lui. Lo zio biascicò qualcosa di cui percepii solo “pillole…veleno…bastardo”, poi sparò. Ebbi il riflesso di appiattirmi contro il lavandino, sentii una specie di calore sul braccio sinistro, e lo zio cadde a terra nel corridoio per il rinculo del colpo: non ci pensai su due volte, raccolsi la pistola che gli era scivolata dalle mani e gli sparai due volte, nel petto, senza guardarlo in faccia. La puzza di balistite mi fece sentire bene, tamponai la ferita di striscio al braccio con un asciugamani, e in quel momento dal corpo dello zio uscì un rumore come di pneumatico che si sgonfia: “maiale, ti scorreggi pure da morto”. Poi tolsi il sangue dal pavimento con l’asciugamano, e trascinai il corpo in cucina: le villette vicine erano abbastanza distanti, e mi sentivo sicuro del fatto che nessuno avesse sentito gli spari, non riuscivo a decidermi se chiamare la polizia o fare finta di niente. Uscii in giardino, e buttai l’asciugamani sporco di sangue nel bidone della spazzatura, una mandria di nuvole basse all’orizzonte prometteva pioggia.

Andai al lavello in cucina, mi lavai le mani, poi sentii qualcosa alle mie spalle: impugnai di nuovo la pistola e mi voltai di scatto. Un alligatore enorme, grosso quanto la Dodge dello zio, fissava il cadavere steso a terra dall’uscio sulla veranda. Non feci nulla, puntai tra gli occhi del rettile che aveva deciso di fare una scampagnata dalla palude alla villetta dello zio, quello si mosse sulle zampe, poi addentò avidamente il morto, e se ne andò, trascinandolo per il vialetto.

Misi la caffettiera sul fornello, e la pistola sul tavolo, ma non si videro altri alligatori.