sabato 30 aprile 2011

da un recente passato




Ci pensavo da parecchio tempo. Al passato, a quei mesi trascorsi in desolate caserme del nord, gonfie di spettri e di inutilità. Mi ero spesso chiesto che fine avessero fatto i compagni di quei tempi, dove fossero finiti quelli che avevano condiviso con me le brande, le camerate, l’obbedienza, il rancio, le paure, le notti insonni. Venticinque anni prima.



Nel frattempo mi ero realizzato nella professione, ero diventato uno scrittore famoso, avevo anche trovato il tempo di mettere su una famiglia, allevare dei figli, sfasciare la famiglia e allontanare i figli da me. Ero fuori giri, dedito a praticare sport assurdi e compagnie inopportune, abusare di quasi tutte le sostanze conosciute, disintossicarmi, farmi travolgere dalle religioni più strane, credere in tutto e in niente, farmi massacrare dai critici letterari, buttare alle ortiche la reputazione. Poi, un sussulto di ragionevolezza mi aiutò a riacquistare dignità e la protezione di un distratto angelo custode e di un agente letterario che ancora credeva in me. “Fallen Angels” era stato un best-seller, ne avevo ceduto i diritti cinematografici, ed in banca il direttore non mi guardava più storto, con la sua faccia da cane pechinese troppo cresciuto.



Ero tornato a vivere da solo, guardato con sospetto dagli amici e dai colleghi, odiato dalla mia ex moglie, ignorato dai miei figli, ai quali erogavo cospicui assegni per placare il rimorso della coscienza, ammesso che ne avessi una, come soleva dire la mia ex-moglie. Forse aveva ragione. Forse no.



Comunque, forse i farmaci, forse le costose terapie analitiche avevano dissepolto dai circuiti della mia memoria quei mesi di servizio militare, a cui pensavo assiduamente, in maniera insistente. Forse il tempo aveva trasformato in mitici quei giorni, che allora mi erano sembrati di grande fatica, non certo da mitizzare.



Poi, una sera, smanettando sul social network in voga in quel periodo, trovai delle facce collegabili a quelle che conservavo nella memoria. Facce e nomi che collimavano. Di alcuni non c’era traccia, altri sembravano troppo vecchi, altri ancora troppo giovani.



Così, cominciai a inviare e-mail, senza particolari speranze. Forse avrei ritrovato qualcuno, magari qualcun altro avrebbe letto il messaggio con fastidio e lo avrebbe cestinato. Avevo previsto come naturali anche un certo numero di risposte acide, o ironiche, del tipo “Antonio, ma che cerchi ancora dopo tanti anni?”



In pochi giorni rintracciai una ventina di ex-ragazzi, ci scambiammo i numeri telefonici, le email, notizie sulla carriera e sulla famiglia, c’era chi era diventato ricco e famoso, e chi ancora volava basso. Tra i compagni ritrovati c’era anche Francesco; avevamo vissuto nella stessa camerata, me lo ricordavo bene, sempre sul chi vive, nervoso come un animale selvatico, con una giacca indosso anche in estate. Un lupo solitario dicevano alcuni, uno che porta sicuramente sfiga dicevano altri. Francesco era un tipo taciturno che indossava occhiali dalle lenti fotocromatiche, che impedivano di leggere dentro i suoi occhi, ferocemente inappuntabile nelle sue operazioni da allievo ufficiale, che viveva in stretta simbiosi con il coinquilino del letto a castello, uno scuro, di poche parole pure lui, che quando era costretto a parlare scopriva i denti lucidi e appuntiti.







“Verrò a Milano, per affari, spero di trovare qualche minuto per rivederci, ci raccontiamo qualcosa, e poi pianifichiamo un raduno di tutti gli ex” avevo scritto a Francesco, e lui mi aveva fatto capire che non gli sarebbe dispiaciuto; ci scambiammo i numeri di telefono, fissammo un appuntamento.



La vibrazione del cellulare richiamò la mia attenzione, sul display lampeggiava un numero sconosciuto, risposi, era lui che mi diceva di essere nei paraggi e che di lì a poco sarebbe arrivato all’hotel.



“Che facciamo, ci prendiamo un caffè?”, Francesco mi rispose che era in auto, e che mi avrebbe portato a fare un giro.



Un giro, in compagnia di uno che non vedevo da venticinque anni. Risposi “Breve, questo giro, non sono solo qui a Milano, come sai stasera ho una riunione di lavoro, una cosa seccante, alla quale devo assolutamente arrivare puntuale”.



Mi rassicurò, un giretto, giusto il tempo di spicciare una commissione e poi ovviamente mi avrebbe riaccompagnato in albergo, niente di cui preoccuparmi, non avrei fatto tardi alla mia riunione. Nei minuti che passarono dalla fine della telefonata mi chiesi se avrei riconosciuto Francesco, le cui foto sul social network erano piccole e sfocate, se mi sarei sentito a disagio, se ne avrei gradito la compagnia, se, se, se.



All’orario dell’appuntamento passeggiavo nella hall, osservando gli oggetti contenuti nelle vetrine, tutte cose inutili che costavano il triplo di quanto si sarebbero potute pagare nel negozio sotto casa. Oggetti dalla squallida inutilità, adatti a placare le crisi di coscienza di mariti fedifraghi o padri distratti. Il cellulare vibrò nuovamente. Era lui “vieni fuori, qui non posso fermarmi perché ci sono i vigili, mi riconoscerai subito, ho una Skoda verde pisello”.



“Verde pisello, va bene esco subito” dissi. Certo, ricordavo le stranezze di Francesco, certi atteggiamenti non del tutto lineari, e in fondo una Skoda verde pisello poteva essere coerente al personaggio. A quello che avevo conosciuto, ma l’avevo conosciuto veramente, oppure il tempo trascorso mi nascondeva qualcosa?



Uscii dall’hotel, attraversai la strada stando attento a non farmi arrotare dagli Schumacher del quartiere, poi passai dal giardinetto pubblico, facendo slalom tra un plotone di bottiglie di birra vuote e rotte, residuo di un rutto party o di uno scontro tra bande di qualche sera prima, infine raggiunsi la Skoda ferma accanto alla fermata del tram.



Francesco scese dall’auto facendo ampi segnali con le braccia; certo, era diverso da come me lo ricordavo, ma come me lo ricordavo?







“Eh, quanto tempo!” esclamammo praticamente all’unisono stringendoci in un abbraccio, reso ingombrante dalle nuove forme dei nostri corpi di cinquantenni in sovrappeso stipati dentro capaci giubbottoni imbottiti di piume.



Per superare l’attimo di imbarazzo seguito alle rumorose effusioni di prima dissi “Dai andiamo, dove mi porti?”



Ci accomodammo nell’abitacolo della Skoda, impregnata dal puzzo di fumo vecchio, Francesco sfilò un pacco da sotto il mio sedile e lo spostò dietro, poi infilò le chiavi nel cruscotto e accese il motore.



“Allora, per restare in tema con la nostra esperienza di allievi ufficiali ti porto al poligono di tiro, è qui vicino, devo incontrare una persona , poi possiamo prendere un caffè e sparare”, disse Francesco ingranando la prima.



La macchina partì con un goffo sussulto “la frizione, devo farla regolare” disse Francesco, e poi “Ah, nel pacco che ho spostato da sotto il tuo sedile, ho due pistole” aggiunse sogghignando. Restai zitto, e volsi lo sguardo verso di lui, che continuava a fissare la strada “Cosa credi, che solo a Palermo si giri armati? Anche a Milano… e senza porto d’armi!”



Un brivido freddo percorse la mia schiena ”due pistole sicuramente cariche e senza porto d’armi… magari con la matricola abrasa”.



“Ma in che cazzo di storia mi sto infilando, e se ci fermano i carabinieri che facciamo: mostriamo i documenti di ufficiali in congedo?” mi chiesi. Intanto Francesco guidava e parlava, nel traffico di una Milano avvilita dalla pioggia e dai cantieri della vorace speculazione edilizia per l’esposizione universale. Scheletri di cemento enormi, gru e strade semi dissestate, uomini come formiche al lavoro, fantasmi anonimi che passavano sui marciapiedi. Parlava del fatto che era costretto a vivere con una che lo odiava, che l’avrebbe lasciata volentieri ma la stronza era proprietaria di una casa col riscaldamento e comunque gli cucinava.



Pochi minuti dopo, arrivammo nel parcheggio del poligono. Francesco mi disse di aspettarlo in macchina, intanto che andava a rinnovare la tessera. “Passami il pacco” mi disse con uno sguardo cattivo e io, meccanicamente, quasi con sollievo, glielo diedi. Poi, Francesco scese dalla Skoda e si diresse verso la reception. Attraverso il parabrezza, punteggiato da gocce di pioggia, lo vidi avvicinarsi a un uomo, che nel frattempo era sceso da un’altra auto parcheggiata: iniziarono a discutere animatamente, poi il cielo si fece più scuro. “Sta per iniziare a grandinare”, mi dissi ad alta voce. Scesi anch’io dalla macchina, con l’ombrello in mano, dirigendomi verso i due che ormai avevano iniziato a gridare e sembravano pronti a litigare. O peggio. La discussione era confusa, non capivo bene cosa si stessero dicendo, sicuramente non discutevano di problemi condominiali. L'altro mi guardò, un lampo, riconobbi lo sguardo cattivo.



Uno degli ufficiali di carriera, che avevano reso difficile la nostra esistenza, una vera carogna. Uno cattivo, anzi cattivissimo, che era scomparso in circostanze misteriose. La sua jeep era stata centrata da un proiettile sparato da un obice mentre era in giro d'ispezione al campo di tiro in Sardegna.



Il corpo non era mai stato ritrovato, si era parlato di strani fenomeni che avvenivano lì, a Perdas de Fogu, di luci scintillanti tra le rocce, di notte, e di entità che sabotavano gli strumenti di puntamento, ma non si era mai scoperto niente, solo voci.



Era arrivato a pochi passi di distanza, quando i due si tolsero le giacche a vento, e spiegarono alla pioggia grandi ali nere, di piume gonfie, luccicanti e frementi. La pioggia sembrò fermarsi, improvvisamente si spensero anche i rumori di fondo, un break nel tempo, pensai. E ritornai col pensiero a quel giorno, quel giorno in cui era partita quella maledetta cannonata. E l'ufficiale responsabile del pezzo era proprio Francesco, e l'addetto al comando tiri ero io. E il tenente Porrus era sparito, sublimato insieme ai pneumatici della sua jeep.



Poi Francesco estrasse rapidamente dal sacchetto le due pistole, ed io cominciai a leggere la scena in slow motion. Fermo immagine, pallottole calibro 7,65 uscirono roventi dalle canne dei revolver. Fast forward, le ogive di piombo raggiunsero l’altro al torace, dal quale inizia a uscire sangue, nero come le sue ali. L’altro indietreggiò, portandosi le mani al petto, cercando forse di fermare l’emorragia. Poi gridò, un urlo lancinante, e in quel momento Francesco si avvicinò, l’altro era in ginocchio, e gli sparò un colpo a bruciapelo in testa. Mi parve di sentire il rumore di un pallone che si sgonfia. La mia bocca si aprì ma non ne uscirono parole, solo una nuvola di condensa, che rimase per qualche istante ferma a mezz’aria. Le loro ali sbatterono, senza rumore, ripiegandosi quelle di Francesco, restando aperte, in una tensione innaturale, impossibile quelle dell’altro. Per qualche istante, tutto si fece scuro, scariche elettriche attraversarono orizzontalmente il cielo gravido di nubi e orrore, restai a guardare ancora la scena, non potevo distogliere lo sguardo, sentivo che avrei dovuto fare qualcosa ma ero come paralizzato.



Poi Francesco si girò, ridendo forte, e sempre con le pistole in mano si avvicinò a me. “Ora mi ammazza” pensai, “a causa di quella vecchia storia, il passato ritorna sempre”. Non riuscivo a muovermi, osservavo con orrore il corpo dell’altro che a terra si stava disseccando, mummificando, poi diventò polvere e rapidamente si dissipò, scomparve, non ne restò nulla. Lo stato di congelamento della realtà sembrò rompersi, la cappa di nuvole si allargò, sentii il sangue che scorreva urgente nei miei vasi cerebrali, i rumori ambientali riempirono nuovamente le mie orecchie.



Guardai Francesco negli occhi, lui prese le pistole dal lato della canna e me le porse “conservale, e ricordati di me”, mi disse, con una voce strana, irriconoscibile. Afferrai le pistole impugnandole, il calcio era gelido e sgradevole, e mentre stavo alzando lo sguardo nuovamente su di lui per chiedergli cosa farne, dove metterle, Francesco sparì, ancora qualche piuma nera volteggiò nell’aria e poi appesantita dalla pioggia cadde sull’asfalto umido del parcheggio. Ebbi il tempo di vedere le piume planare a terra e svanire, come assorbite dalla terra stessa, mentre sirene urlavano sinistramente nel tramonto inquinato e sanguinoso della città.



Tolsi il mio giaccone, lo buttai via lontano, si liberarono grandi ali bianche, sbatterono alcune volte, presero forza, mi alzai e presi quota mentre le pantere della polizia entravano nel parcheggio del poligono di tiro. Ero già alto, tra le nuvole impregnate di gas velenosi sopra la città, guardai sotto, forse questa storia non era ancora finita. Forse.


venerdì 22 aprile 2011

la fine del mondo, domenica a mezzogiorno


Le folle oceaniche del ventesimo secolo erano ormai un ricordo. Spesso, si sedeva nella sua poltrona bianca, accendeva il televisore a  schermo virtuale gigante, e rivedeva con enorme nostalgia le piazze piene, riascoltava i cori, gli applausi, la vibrazione che si propagava dalla folla fino a raggiungere la finestra dalla quale si compiaceva, leggeva, declamava, salutava, benediva le folle. E le colombe bianche, che volavano via incerte e spaventate.

Quella domenica, la piazza era semideserta, solo gli uomini della sicurezza, alcuni curiosi capitati lì per caso, una pattuglia di turisti tedeschi, di cui due omaccioni vestiti alla moda tirolese, un paio con giubbotti di pelle già brilli, uno con una t-shirt sulla quale campeggiava il faccione equino di Michel Schumacher.

Il consigliere, accanto a lui dietro la finestra aperta, da dietro la tenda mormorava tenendosi il volto tra le mani “la fine del mondo, la fine del mondo…”

L’uomo con le ciabatte rosse serrò le mascelle ruminando qualcosa d’incomprensibile, poi chiuse la finestra, si calcò la papalina sul cranio lucido, si ritirò nel suo ufficio.

“Lasciatemi solo”, disse ai suoi collaboratori. Il Papa aprì il cassetto del secretaire, prese la chiave della cassaforte, e scese le scale fino alla Cappella Sistina. Spense le luci, aprì il forziere che conteneva il tabernacolo, scostò il calice con le ostie consacrate, premette un grosso pulsante rosso.

“La fine del mondo, e così sia”, mormorò il Papa.

Dalle stazioni spaziali orbitanti, si vide un fiore di fuoco sbocciare sulla terra, poi tutto fu spazzato via dall’onda d’urto.


 

mercoledì 6 aprile 2011

perchè, non capisco



l meridione d'Italia, e la Sicilia con le sue "isole minori", hanno una inevitabile vocazione turistica: storia, arte, natura, colori, sapori, odori e sensazioni uniche.

Non si capisce, io non capisco perche' i profughi (siano migranti, evasi, disperato o furbi poco cambia) debbano soffocare il Sud. Ah, certo, sono odiosamente razzista solo a pensarlo. Si poteva fare diversamente? Si. Si puo'.

Le navi, dislocate nel Mediterraneo, di fronte le coste dei paesi in rivolta. L'Europa deve schierare grandi navi da crociera, che non si usano più, per raccogliere, ospitare dignitosamente, selezionare, identificare e smistare o espelle o riportare indietro coloro i quali non meritano l'accoglienza. Si potrebbe anche impiegare produttivamente chi arriva su queste grandi navi, dal numeroso equipaggio, facendoli lavorare, ovviamente pagati, su quelle stesse navi che li hanno accolti e salvati.

I campi e le tendopoli non sono una soluzione. La storia l'ha dimostrato.