sabato 24 dicembre 2011

gli auguri al tempo del silicio

E siamo ormai in un secolo dove tutto ha un prefisso, che sia e o i, poco cambia. I rapporti umani passano attraverso la mediazione di sistemi informatici digitali.Per esempio, ci stiamo scambiando auguri tramite i social network,dovrebbero mettere accanto alle facce dei contatti su FB un indicatore graduato. Con le seguenti istruzioni: da zero a venti, puoi pure fottertene di fare gli auguri, tanto e'uguale. Da venti a quaranta, bastano auguri via FB ( miii, si ricordo' di me!), da quaranta a sessanta un messaggio privato (circolare) o un sms collettivo (potete pure riciclarne uno degli anni scorsi, basta cambiare la data) da sessanta a ottanta messaggio privato o sms personalizzato non riciclato. Da ottanta a cento, si va in una fascia relazionale che esubera i confini del social network, sono quelle persone con le quali piace un abbraccio, baci più o meno sparsi, scambio di regali, virus e batteri o altro che non sto a specificare tanto siete tutti adulti e vaccinati.
E siccome sono pigro, e di prendere il telefono non mi va, se vi incontro per strada vi abbraccerò come tanti tubetti di dentifricio giganti, altrimenti gli auguri vi arrivino da qui, inodori, incolori e pastorizzati. Auguri, amici.

lunedì 19 dicembre 2011

ci sono cose da uomini

Dopo venticinque anni di vita in una casa, ci sono cose da uomini. Come decidere quali libri andranno trasportati nella nuova casa, e quali no. Come confezionare ordinati pacchetti, numerati e identificati, di tutte quelle cose che le donne considererebbero superflue, come long playing, musicassette, cd.
Ci sono cose che vengono dure anche agli uomini, però. Come evitare di aprire gli album di fotografie. Eppure lo sapevo che non dovevo farlo. Eppure, allora, sotto la luce del sole d'estate, era accanto a te nella foto, e c'erano anche tutti gli altri. Ora, a rifarla, quella foto, non sarebbe possibile. Ecco perchè era meglio non aprirlo, quell'album, ma metterlo direttamente nello scatolone e via, direttamente nell'armadio di casa nuova.

domenica 11 dicembre 2011

se si toglie il tappo al lavandino dei ricordi

Oggi è ufficialmente iniziato il periodo in cui traslocherò. Dopo il blog, traslocheremo pure di casa, spostandoci in un altro quartiere, dove mia moglie ha il suo lavoro: casa e putìa.
Abbiamo aperto cassetti e armadi, carpette e faldoni, tirando fuori roba che nemmeno ricordavamo di avere.
Ho buttato alcuni quintali di roba varia, e altra roba finirà sui siti di compravendita online, chissà, magari troverò qualcuno a cui interessa conservarla ancora.
Adesso ho in mano un walkman, uno di quelli a cassette, uno di quelli sofisticati ad "alta fedeltà", uno di quelli che costò un botto, e che non utilizzavo da anni.
Da anni, perchè le musicassette ormai sono oggetti obsoleti, soppiantate prima dai cd e dai cd masterizzati, e poi dai riproduttori di file mp3, che nello spazio di una scatola di fiammiferi riescono a conservare tutta la musica che attualmente occupa una libreria di 3 metri per 3.
Ho aperto la confezione, l'oggetto è nero, smussato come una pietra di ossidiana, ha un suo peso e il contatto è piacevole.
Parte la macchina del ricordo: è il 1992, io sono su una nave da crociera che la società tedesca per cui lavoravo allora ha noleggiato per portare in "convention motivazionale" i dipendenti, nell'imminenza del lancio italiano di un nuovo prodotto.
Che tempi. Ricordo che una mattina ci svegliammo e la lira era stata svalutata nel cuore della notte: il cambio col marco cambiò di botto da settecento a mille lire.
E gli extra si pagavano in marchi...però non fu un problema per me, avevo capito come "arrotondare" al casinò di bordo.
Il ricordo: è l'alba, so che la nave atraverserà lo stretto di Gibilterra, per approdare poi sul lato atlantico della Spagna; ho puntato la sveglia per non perdermi questo momento, la mia prima volta oltre le colonne d'Ercole.
Il mio compagno di camera dorme, ha fatto le ore piccole in discoteca, indosso una tuta da ginnastica ed esco sul ponte. L'aria frizzante mi fa rabbrividire, prendo una sdraio e la pongo in direzione est, mi stendo e accendo il walkman.
Attraversammo lo stretto, con Pat Metheny nelle orecchie.

martedì 6 dicembre 2011

lo zio Englebert

Avevo perso il lavoro; il proprietario del negozio di armi che mi aveva assunto tre mesi prima era stato arrestato per una storia di tasse non pagate. Era venuta l’FBI, avevano messo sottosopra l’ufficio e poi se l’erano portato via in manette. Poi un ciccione sudato aveva messo i sigilli alla porta e mi aveva detto “arrangiati”. Io ero rimasto per un po’ appoggiato al palo della luce sul marciapiedi, poi ero tornato a casa .
Radunai le mie cose nel soggiorno, poi le sistemai in due scatoloni, scrissi un biglietto al padrone di casa che lasciai sul tavolo di formica della cucina, misi le chiavi nel portavaso della pianta finta davanti l’uscio e me ne andai. In strada telefonai a mia madre, che non sembrò sorpresa del fatto che fossi rimasto senza lavoro: mi disse che se volevo, lo zio Englebert aveva bisogno di assistenza medica, e che avrei potuto andare a stare da lui per qualche tempo, in cambio appunto di qualche lavoretto per lo zio. “Ma è in Florida” obiettai flebilmente, mentre due negri guardavano con cupidigia gli scatoloni che erano rimasti fuori dalla cabina telefonica. “Che vendi” mi chiese il negro più anziano “pentole, libri, una radiolina a transistor e qualche altra stronzata”. Vollero vedere gli oggetti ad uno ad uno, passandoseli tra loro e rigirandoseli tra le mani, poi il negro più giovane disse “quanto vuoi”, “trenta dollari” risposi senza convinzione “datemi trenta dollari e vi lascio tutto, anche gli scatoloni”. Mi misero in mano le banconote stropicciate e sudaticce, comunque presi i trenta dollari, senza tante storie e andai a piedi alla fermata del Greyhound.
Comprai il biglietto per Cape Canaveral e mi sedetti sulla panca di legno ad aspettare che passasse l’autobus. Ad un certo punto mi venne fame a furia di guardare un poster con una donna che cucinava, dentro la stazione dei bus c’era uno Starbucks deserto, l’impiegata al banco sembrava una faina annoiata, comprai una ciambella ed un caffè e ritornai ad aspettare.
Lo zio Englebert era stato avvertito da mia madre, e si fece trovare a letto: lo conoscevo poco, e di lui ricordavo un certo lugubre umorismo, che alle cene di Natale, quando ancora vivevamo tutti a Filadelfia, contrastava con l’allegria standard dei miei genitori, e di noi figli, che non vedevamo l’ora di piantare i denti nella carne del monumentale tacchino che troneggiava al centro del tavolo. Quello invece pregava a lungo, anche per l’anima del tacchino morto, salvo poi mangiarsi anche la pelle e le cartilagini che noi bambini lasciavamo nei piatti.
Le cure mediche di cui necessitava lo zio Englebert consistevano nel passargli i pacchetti di fazzoletti di carta con cui si soffiava il naso ogni cinque minuti, nel prendere le compresse delle confezioni, riempire bicchieri d’acqua e passargliele. Il farmacista aveva regalato allo zio una specie di rastrelliera in cui alloggiare le pillole della giornata: al mattino, quando le sistemavo, sembrava uno di quegli spartiti per scolari con le note colorate, tramite i quali si imparava a suonare Jingle Bells sul pianoforte giocattolo, che aveva appunto dei dischetti di colore diverso sui tasti. Era talmente facile che dopo dieci minuti di suonare veniva voglia di cambiare gioco, ma l’insegnante di musica aveva alcuni brutti vizi, tra i quali quello di sibilarti in faccia che ancora l’ora non era passata, e la sua alitosi era meglio evitarla.
Una mattina, mentre in bagno mi stavo radendo davanti allo specchio, sentii il passo pesante dello zio che si trascinava lungo il corridoio; pensai che dovesse fare la seconda pisciata della mattina, ma quando con la coda dell’occhio lo vidi affacciarsi alla porta mi accorsi che aveva preso la mia pistola, quella che mi aveva prestato il proprietario del negozio d’armi prima che l’arrestassero.
“Se viene qualche faccia di merda, piantategliela in bocca, vedrai che cambia aria” aveva detto lui. Lo zio biascicò qualcosa di cui riuscii a percepire solo “pillole…veleno…bastardo…crepa”, poi sparò.
Ebbi il riflesso di appiattirmi contro il lavandino, sentii un forte calore sul braccio sinistro e il tonfo secco della pallottola che si conficcava nel muro, lo zio cadde a terra nel corridoio per il rinculo del colpo.
Era grasso, con i muscoli inflacciditi dalla lunga permanenza a letto, non ci pensai su due volte, raccolsi la pistola che gli era scivolata dalle mani e gli sparai due volte, nel petto, senza neanche guardarlo in faccia. La puzza della balistite mi fece sentire bene, tamponai la ferita di striscio al braccio con una tovaglietta e in quel momento dal corpo dello zio uscì un rumore come di pneumatico che si sgonfia “maiale, ti scorreggi pure da morto”. Poi tolsi il sangue dal pavimento di linoleum verde acido con l’asciugamano, e trascinai il corpo in cucina, pesava più da morto che da vivo pensai anche. Le altre villette della zona erano abbastanza distanti e mi sentivo abbastanza sicuro che nessun altro avesse sentito gli spari: non riuscivo a decidermi se chiamare la polizia o fare finta di niente.
Uscii in giardino, buttai l’asciugamani sporco di sangue nel bidone della spazzatura, una mandria di nuvole basse all’orizzonte prometteva pioggia, rientrai convinto che mi conveniva tagliare la corda.
Andai al lavello in cucina, mi sciacquai le mani, poi sentii un rumore alle mie spalle: impugnai di nuovo la pistola e mi voltai di scatto, tenendo il dito sul grilletto. Un alligatore enorme, grosso quanto la Dodge dello zio, fissava il cadavere steso a terra in cucina dall’uscio sulla veranda, che era rimasto aperto. Non feci nulla, puntai tra gli occhi del rettile che aveva deciso di fare una scampagnata dalla palude alla villetta dello zio, quello si mosse sulle zampe, poi addentò avidamente il morto e se ne andò, trascinandolo per il vialetto.
Misi la caffettiera sul fornello, e la pistola sul tavolo, ma non si videro altri alligatori.

martedì 1 novembre 2011

lo zio englebert (ovvero come ho trovato un racconto completo dentro un sogno)


Mi sono svegliato, sapendo già che mi sarei messo  a scrivere questo racconto. Nelle fasi rem mi si era srotolato dentro la testa, mentre facevo colazione (e infatti ci sono ancora tracce di marmellata sulla tastiera del pc) l'ho scritto, così come lo avevo sognato. Sapevo anche che se avessi rimandato al pomeriggio, probabilmente lo avrei dimenticato. Eccolo:

 





Avevo perso il lavoro, il proprietario del negozio di armi che mi aveva assunto tre mesi prima era stato arrestato per una storia di tasse non pagate: era venuta l’Fbi, avevano messo sottosopra l’ufficio e poi se l’erano portato via in manette. Poi un ciccione aveva messo i sigilli alla porta e mi aveva detto “arrangiati”. Io ero rimasto per un po’ appoggiato al palo della luce sul marciapiedi, poi ero tornato a casa. Sistemate le mie cose in due scatoloni, scrissi un biglietto al padrone di casa che lasciai sul tavolo di formica  della cucina, misi le chiavi nel portavaso della pianta finta davanti l’uscio e me ne andai. In strada telefonai a mia madre, che non sembrò sorpresa  del fatto che fossi rimasto senza lavoro: mi disse che se volevo, lo zio Englebert aveva bisogno di assistenza medica, e che avrei potuto andare da lui per qualche tempo. “ma è in Florida” obiettai mentre due negri guardavano con cupidigia gli scatoloni fuori dalla cabina telefonica "arrangiati, sei adulto" rispose mia madre. “Che vendi” mi chiese il negro più anziano, “pentole, libri, una radiolina a transistor e qualche altra stronzata”. Vollero vedere gli oggetti uno ad uno, rigirandoseli tra le mani e poi gli dissi “datemi trenta dollari e vi lascio tutto, pure le scatole”. Presi i trenta dollari e andai a piedi alla fermata del greyhound, comprai il biglietto per Cape Canaveral e mi sedetti sulla panca di legno ad aspettare che passasse l’autobus. A un certo punto mi venne fame, dentro la stazione dei bus c’era uno Starbucks, l’impiegata al banco sembrava una faina annoiata, comprai una ciambella e un caffè, e ritornai ad aspettare.

 



 

 


Lo zio Englebert era stato avvertito da mia madre, e si fece trovare a letto: lo conoscevo poco, e di lui ricordavo un certo lugubre umorismo, che alle cene di Natale, quando ancora vivevamo tutti a Filadelfia, contrastava con l’allegria standard dei miei genitori, e di noi figli, che non vedevamo l’ora di piantare i denti nel monumentale tacchino che troneggiava al centro del tavolo. Quello invece pregava anche per l’anima del tacchino morto, salvo poi mangiarsene la pelle e le cartilagini che rimanevano nei piatti.

Le cure mediche di cui necessitava consistevano nel passargli i pacchetti di fazzoletti di carta con cui si soffiava il naso ogni cinque minuti, nel prendere delle compresse dalle confezioni, riempire un bicchiere d’acqua e passargliele. Il farmacista aveva dato allo zio una specie di rastrelliera in cui alloggiare le pillole della giornata: al mattino, quando le sistemavo, sembravano uno di quegli spartiti per bambini con le note colorate, tramite i quali si imparava a suonare Jingle Bells sul pianoforte giocattolo, che aveva appunto dei dischetti di colore diverso sui tasti. Era talmente facile che dopo dieci minuti di suonare il piano veniva voglia di cambiare gioco.

 

Una mattina, mentre in bagno mi stavo radendo davanti allo specchio, sentii lo zio che si trascinava lungo il corridoio, pensai che dovesse fare la seconda pisciata della mattina, ma quando con la coda dell’occhio lo vidi affacciarsi alla porta mi accorsi che aveva preso la mia pistola, quella che mi aveva prestato il proprietario del negozio di armi prima che l’arrestassero “se viene qualche faccia di merda, piantagliela in bocca, vedrai che cambia aria” aveva detto lui. Lo zio biascicò qualcosa di cui percepii solo “pillole…veleno…bastardo”, poi sparò. Ebbi il riflesso di appiattirmi contro il lavandino, sentii una specie di calore sul braccio sinistro, e lo zio cadde a terra nel corridoio per il rinculo del colpo: non ci pensai su due volte, raccolsi la pistola che gli era scivolata dalle mani e gli sparai due volte, nel petto, senza guardarlo in faccia. La puzza di balistite mi fece sentire bene, tamponai la ferita di striscio al braccio con un asciugamani, e in quel momento dal corpo dello zio uscì un rumore come di pneumatico che si sgonfia: “maiale, ti scorreggi pure da morto”. Poi tolsi il sangue dal pavimento con l’asciugamano, e trascinai il corpo in cucina: le villette vicine erano abbastanza distanti, e mi sentivo sicuro del fatto che nessuno avesse sentito gli spari, non riuscivo a decidermi se chiamare la polizia o fare finta di niente. Uscii in giardino, e buttai l’asciugamani sporco di sangue nel bidone della spazzatura, una mandria di nuvole basse all’orizzonte prometteva pioggia.

Andai al lavello in cucina, mi lavai le mani, poi sentii qualcosa alle mie spalle: impugnai di nuovo la pistola e mi voltai di scatto. Un alligatore enorme, grosso quanto la Dodge dello zio, fissava il cadavere steso a terra dall’uscio sulla veranda. Non feci nulla, puntai tra gli occhi del rettile che aveva deciso di fare una scampagnata dalla palude alla villetta dello zio, quello si mosse sulle zampe, poi addentò avidamente il morto, e se ne andò, trascinandolo per il vialetto.

Misi la caffettiera sul fornello, e la pistola sul tavolo, ma non si videro altri alligatori.  


lunedì 24 ottobre 2011

ventiquattro, e poi crash

Gli eroi vivono pochi, folgoranti, momenti da leoni, e spesso muoiono giovani.

A noi, che passiamo una noiosa vita da pecore in poltrona, non resta che piangerli.



venerdì 21 ottobre 2011

kill gheddafi

In diretta, l'orrore trasmesso da un telefonino al satellite più vicino e quindi rovesciato senza preavviso sui telegiornali della sera, mentre le famiglie stanno cenando con i bambini. Kill Gheddafi, Kill!!!

E ora, il coro sguaiato di chi esulta perche'un vecchio leone spelacchiato, a cui era rimasto solo il rauco ruggito, e' stato giustiziato. Gioisce chi ormai e'certo che l'ex-amico, ex-alleato, ex-socio ormai e'muto per sempre. Parecchie cosiddette democrazie occidentali avrebbero vacillato se il tiranno di Tripoli avesse parlato ad un processo. In casi del genere, sono i cosiddetti consiglieri strategici, sempre presenti, che aiutano l'esaltato di turno a premere il grilletto. 

domenica 16 ottobre 2011

Carnage, ovvero il difficile mestiere di fare il lavoro degli altri




se uno vuole fare il mestiere di un altro, è giusto che ci pensi bene...ho visto ierisera "carnage", il nuovo film di Roman Polanski. I presupposti per una storia divertente e scomodamente attuale c'erano tutti: due famiglie, di diverso reddito e posizione sociale, si incontrano in un appartamento (dei meno ricchi) per dirimere la scomoda faccenda di una lite tra i figli, undicenni ma già abbastanza agitati, lite nella quale il ragazzino della coppia più sfigata subisce la perdita di due denti e tumefazioni sparse in faccia. Il film si svolge tutto dentro l'appartamento, e onestamente dopo la prima mezzora lo spettatore si immagina già come andrà a finire. La storia è sicuramente più adatta ad una trasposizione teatrale, ma al cinema annoia, e a questo punto spiego la faccenda del mestiere degli altri: Polanski, probabilmente tediato dalla lunga detenzione in Svizzera, voleva divertirsi e divertire con una pellicola divertente, che satireggiasse sul costume contemporaneo (iperprotettività delle famiglie, tensioni di coppia, lavori che invadono il privato etc.) ma non ha il mestiere di Woody Allen, a cui chiaramente voleva rubarlo. Poteva benissimo durare venti minuti, invece dell'ora e mezza abbondante che ruba allo spettatore, e sarebbe stato sicuramente più divertente. Jodie Foster è sprecata, ingessata nella parte di una madre frustrata che vorrebbe agire più di quanto non faccia, e gli altri sono automi, spinti stancamente dal copione. Conclusione, risparmiatevi i soldini del biglietto, e se proprio non potete fare a meno dell'ultima opera del signor Polanski, la noleggerete a tempo debito. Voto: 5 e mezzo, voto di mia moglie, 3.


giovedì 29 settembre 2011

Mariastella, minatrice a sua insaputa

Ho un neutrino

Sotto al cuscino

Ed un fotone 

Nell'armadione

Con Dante e Petrarca

Ci vado in barca

Son diplomata

E lau-re-atta

Dell'istruzione ho il dicastero

So tutto per davvero

Son Mariastella

Geniale e bella

Tremate studenti

Attenti docenti

Più veloce della luce

Con aria truce

Vado in tivvu'

Non ridete più 

Prossimo passo

Percorrero'il tunnel

Ginevra Gran Sasso

Da me finanziato

E poi realizzato

Dal grande governo

Imbattibile e eterno

Del fare e del dire

Minchiate orbe a non finire

venerdì 23 settembre 2011

rottami spaziali

caro satellite annoiato

a pezzi frantumato

dall'impatto con l'atmosfera

che cadrai questa sera

facci un favore 

decidi di cadere

sulla testa di un tal silvio

che cammina sul ponte milvio

o lo fai rinsavire

o lo fai scomparire

caro spazial relitto

non sarebbe un delitto

dalle stelle alle stalle

il pornonano fuori dalle balle

e se t'avanzano pezzetti

usali proprio tutti

contro quei somari

chiamati parlamentari!

mercoledì 14 settembre 2011

eccessi d'autore secondo appello

cari amici,



stiamo preparando un volume che si chiamerà come il titolo di questo post, contiamo di raccogliere una quindicina di racconti (per ora siamo a sei). C'è tempo fino alla metà di ottobre, giusto in tempo per avere il libro stampato in libreria in periodo-regali natalizi.

Se in fondo a qualche cartella, cassetto, carpetta giace un racconto che si svolge dentro, intorno, vicino al cesso, mandatemelo. Saranno pubblicati su un libro vero, di carta, non igienica comunque.



per altre comunicazioni e informazioni, contattatemi con un messaggio privato.

venerdì 22 luglio 2011

(ec)cessi d'autore

cari amici,

stiamo preparando un volume che si chiamerà come il titolo di questo post.

se in fondo a qualche cartella, cassetto, carpetta giace un racconto che si svolge dentro, intorno, vicino al cesso, mandatemelo. Ne pubblicheremo una quindicina, su un libro vero, di carta, non igienica comunque.

comunicazioni e informazioni in mp.

mercoledì 29 giugno 2011

siccome non avevo da fare

...ho iniziato a collaborare ad un blog serio, di quelli che hanno ben chiaro l'obiettivo da raggiungere (loro si, io non saprei)



http://hifimusica.blogspot.com/ 



in questa rivista online io mi occupo di recensioni di musica indie pop e indie rock e in genere di musica ignorante contemporanea.



leggetivillo.

giovedì 23 giugno 2011

kill your writer

Ci avete pensato, chiudendo quel libro-mattone che avete finito di leggere solo grazie a generose cucchiaiate di maalox. Ci avete pensato e avete sibilato "se l'avessi qui l'ammazzerei". Avete la possibilità di farlo, di accoppare lo scrittore che vi ha causato emicrania, acidità di stomaco, prurito, meteorismo, foruncoli.

Kill your writer è un concorso letterario in cui vi si chiede di scrivere come accoppereste lo scrittore insopportabile. 

I dettagli qui: http://scimmiettedimareproject.wordpress.com/



f
orza, che inizino le stragi purificatrici.

giovedì 16 giugno 2011

romani, accorrete!

Se avete voglia di vedere il corto "vado pazzo per le vacche" ecco un'occasione a Roma:



Vado Pazzo per le Vacche è stato selezionato alla 19a Edizione di ARCIPELAGO - Festival Internazionale di Cortometraggi e Nuove Immagini (20 - 24 Giugno 2011), nella Sezione ITINERARI - PANORAMICA ITALIANA, avrà luogo a Roma, Multisala Intrastevere (Vicolo Moroni 3A), e seguirà il seguente calendario:



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GIO 23/6, 21:00 - SALA 2.



qui i dettagli: https://www.facebook.com/event.php?eid=173805869345605

venerdì 3 giugno 2011

vado pazzo per cortomatto

Concorso Cortomatto 3: Sezione Follemetraggi. Premio Miglior Follemetraggio : "Vado

pazzo per le vacche" di Tommaso Magnano.



vado01

martedì 17 maggio 2011

quelli che


Quelli che ci mettono la faccia, non rendendosi conto che e' diventata culo.

Quelle che tanto c'e' il secondo turno, e si vince facile.

Quelli che pensavano che napoletani e milanesi fossero stupidi.

Quelli che invitavamo tutti e tutte al bungabunga.


Quelli che non sanno che la munnizza e' un boomerang di ottima memoria.

Quelli che hanno comprato la macchina del fango, credendo al venditore, oh yea
h!


sabato 30 aprile 2011

da un recente passato




Ci pensavo da parecchio tempo. Al passato, a quei mesi trascorsi in desolate caserme del nord, gonfie di spettri e di inutilità. Mi ero spesso chiesto che fine avessero fatto i compagni di quei tempi, dove fossero finiti quelli che avevano condiviso con me le brande, le camerate, l’obbedienza, il rancio, le paure, le notti insonni. Venticinque anni prima.



Nel frattempo mi ero realizzato nella professione, ero diventato uno scrittore famoso, avevo anche trovato il tempo di mettere su una famiglia, allevare dei figli, sfasciare la famiglia e allontanare i figli da me. Ero fuori giri, dedito a praticare sport assurdi e compagnie inopportune, abusare di quasi tutte le sostanze conosciute, disintossicarmi, farmi travolgere dalle religioni più strane, credere in tutto e in niente, farmi massacrare dai critici letterari, buttare alle ortiche la reputazione. Poi, un sussulto di ragionevolezza mi aiutò a riacquistare dignità e la protezione di un distratto angelo custode e di un agente letterario che ancora credeva in me. “Fallen Angels” era stato un best-seller, ne avevo ceduto i diritti cinematografici, ed in banca il direttore non mi guardava più storto, con la sua faccia da cane pechinese troppo cresciuto.



Ero tornato a vivere da solo, guardato con sospetto dagli amici e dai colleghi, odiato dalla mia ex moglie, ignorato dai miei figli, ai quali erogavo cospicui assegni per placare il rimorso della coscienza, ammesso che ne avessi una, come soleva dire la mia ex-moglie. Forse aveva ragione. Forse no.



Comunque, forse i farmaci, forse le costose terapie analitiche avevano dissepolto dai circuiti della mia memoria quei mesi di servizio militare, a cui pensavo assiduamente, in maniera insistente. Forse il tempo aveva trasformato in mitici quei giorni, che allora mi erano sembrati di grande fatica, non certo da mitizzare.



Poi, una sera, smanettando sul social network in voga in quel periodo, trovai delle facce collegabili a quelle che conservavo nella memoria. Facce e nomi che collimavano. Di alcuni non c’era traccia, altri sembravano troppo vecchi, altri ancora troppo giovani.



Così, cominciai a inviare e-mail, senza particolari speranze. Forse avrei ritrovato qualcuno, magari qualcun altro avrebbe letto il messaggio con fastidio e lo avrebbe cestinato. Avevo previsto come naturali anche un certo numero di risposte acide, o ironiche, del tipo “Antonio, ma che cerchi ancora dopo tanti anni?”



In pochi giorni rintracciai una ventina di ex-ragazzi, ci scambiammo i numeri telefonici, le email, notizie sulla carriera e sulla famiglia, c’era chi era diventato ricco e famoso, e chi ancora volava basso. Tra i compagni ritrovati c’era anche Francesco; avevamo vissuto nella stessa camerata, me lo ricordavo bene, sempre sul chi vive, nervoso come un animale selvatico, con una giacca indosso anche in estate. Un lupo solitario dicevano alcuni, uno che porta sicuramente sfiga dicevano altri. Francesco era un tipo taciturno che indossava occhiali dalle lenti fotocromatiche, che impedivano di leggere dentro i suoi occhi, ferocemente inappuntabile nelle sue operazioni da allievo ufficiale, che viveva in stretta simbiosi con il coinquilino del letto a castello, uno scuro, di poche parole pure lui, che quando era costretto a parlare scopriva i denti lucidi e appuntiti.







“Verrò a Milano, per affari, spero di trovare qualche minuto per rivederci, ci raccontiamo qualcosa, e poi pianifichiamo un raduno di tutti gli ex” avevo scritto a Francesco, e lui mi aveva fatto capire che non gli sarebbe dispiaciuto; ci scambiammo i numeri di telefono, fissammo un appuntamento.



La vibrazione del cellulare richiamò la mia attenzione, sul display lampeggiava un numero sconosciuto, risposi, era lui che mi diceva di essere nei paraggi e che di lì a poco sarebbe arrivato all’hotel.



“Che facciamo, ci prendiamo un caffè?”, Francesco mi rispose che era in auto, e che mi avrebbe portato a fare un giro.



Un giro, in compagnia di uno che non vedevo da venticinque anni. Risposi “Breve, questo giro, non sono solo qui a Milano, come sai stasera ho una riunione di lavoro, una cosa seccante, alla quale devo assolutamente arrivare puntuale”.



Mi rassicurò, un giretto, giusto il tempo di spicciare una commissione e poi ovviamente mi avrebbe riaccompagnato in albergo, niente di cui preoccuparmi, non avrei fatto tardi alla mia riunione. Nei minuti che passarono dalla fine della telefonata mi chiesi se avrei riconosciuto Francesco, le cui foto sul social network erano piccole e sfocate, se mi sarei sentito a disagio, se ne avrei gradito la compagnia, se, se, se.



All’orario dell’appuntamento passeggiavo nella hall, osservando gli oggetti contenuti nelle vetrine, tutte cose inutili che costavano il triplo di quanto si sarebbero potute pagare nel negozio sotto casa. Oggetti dalla squallida inutilità, adatti a placare le crisi di coscienza di mariti fedifraghi o padri distratti. Il cellulare vibrò nuovamente. Era lui “vieni fuori, qui non posso fermarmi perché ci sono i vigili, mi riconoscerai subito, ho una Skoda verde pisello”.



“Verde pisello, va bene esco subito” dissi. Certo, ricordavo le stranezze di Francesco, certi atteggiamenti non del tutto lineari, e in fondo una Skoda verde pisello poteva essere coerente al personaggio. A quello che avevo conosciuto, ma l’avevo conosciuto veramente, oppure il tempo trascorso mi nascondeva qualcosa?



Uscii dall’hotel, attraversai la strada stando attento a non farmi arrotare dagli Schumacher del quartiere, poi passai dal giardinetto pubblico, facendo slalom tra un plotone di bottiglie di birra vuote e rotte, residuo di un rutto party o di uno scontro tra bande di qualche sera prima, infine raggiunsi la Skoda ferma accanto alla fermata del tram.



Francesco scese dall’auto facendo ampi segnali con le braccia; certo, era diverso da come me lo ricordavo, ma come me lo ricordavo?







“Eh, quanto tempo!” esclamammo praticamente all’unisono stringendoci in un abbraccio, reso ingombrante dalle nuove forme dei nostri corpi di cinquantenni in sovrappeso stipati dentro capaci giubbottoni imbottiti di piume.



Per superare l’attimo di imbarazzo seguito alle rumorose effusioni di prima dissi “Dai andiamo, dove mi porti?”



Ci accomodammo nell’abitacolo della Skoda, impregnata dal puzzo di fumo vecchio, Francesco sfilò un pacco da sotto il mio sedile e lo spostò dietro, poi infilò le chiavi nel cruscotto e accese il motore.



“Allora, per restare in tema con la nostra esperienza di allievi ufficiali ti porto al poligono di tiro, è qui vicino, devo incontrare una persona , poi possiamo prendere un caffè e sparare”, disse Francesco ingranando la prima.



La macchina partì con un goffo sussulto “la frizione, devo farla regolare” disse Francesco, e poi “Ah, nel pacco che ho spostato da sotto il tuo sedile, ho due pistole” aggiunse sogghignando. Restai zitto, e volsi lo sguardo verso di lui, che continuava a fissare la strada “Cosa credi, che solo a Palermo si giri armati? Anche a Milano… e senza porto d’armi!”



Un brivido freddo percorse la mia schiena ”due pistole sicuramente cariche e senza porto d’armi… magari con la matricola abrasa”.



“Ma in che cazzo di storia mi sto infilando, e se ci fermano i carabinieri che facciamo: mostriamo i documenti di ufficiali in congedo?” mi chiesi. Intanto Francesco guidava e parlava, nel traffico di una Milano avvilita dalla pioggia e dai cantieri della vorace speculazione edilizia per l’esposizione universale. Scheletri di cemento enormi, gru e strade semi dissestate, uomini come formiche al lavoro, fantasmi anonimi che passavano sui marciapiedi. Parlava del fatto che era costretto a vivere con una che lo odiava, che l’avrebbe lasciata volentieri ma la stronza era proprietaria di una casa col riscaldamento e comunque gli cucinava.



Pochi minuti dopo, arrivammo nel parcheggio del poligono. Francesco mi disse di aspettarlo in macchina, intanto che andava a rinnovare la tessera. “Passami il pacco” mi disse con uno sguardo cattivo e io, meccanicamente, quasi con sollievo, glielo diedi. Poi, Francesco scese dalla Skoda e si diresse verso la reception. Attraverso il parabrezza, punteggiato da gocce di pioggia, lo vidi avvicinarsi a un uomo, che nel frattempo era sceso da un’altra auto parcheggiata: iniziarono a discutere animatamente, poi il cielo si fece più scuro. “Sta per iniziare a grandinare”, mi dissi ad alta voce. Scesi anch’io dalla macchina, con l’ombrello in mano, dirigendomi verso i due che ormai avevano iniziato a gridare e sembravano pronti a litigare. O peggio. La discussione era confusa, non capivo bene cosa si stessero dicendo, sicuramente non discutevano di problemi condominiali. L'altro mi guardò, un lampo, riconobbi lo sguardo cattivo.



Uno degli ufficiali di carriera, che avevano reso difficile la nostra esistenza, una vera carogna. Uno cattivo, anzi cattivissimo, che era scomparso in circostanze misteriose. La sua jeep era stata centrata da un proiettile sparato da un obice mentre era in giro d'ispezione al campo di tiro in Sardegna.



Il corpo non era mai stato ritrovato, si era parlato di strani fenomeni che avvenivano lì, a Perdas de Fogu, di luci scintillanti tra le rocce, di notte, e di entità che sabotavano gli strumenti di puntamento, ma non si era mai scoperto niente, solo voci.



Era arrivato a pochi passi di distanza, quando i due si tolsero le giacche a vento, e spiegarono alla pioggia grandi ali nere, di piume gonfie, luccicanti e frementi. La pioggia sembrò fermarsi, improvvisamente si spensero anche i rumori di fondo, un break nel tempo, pensai. E ritornai col pensiero a quel giorno, quel giorno in cui era partita quella maledetta cannonata. E l'ufficiale responsabile del pezzo era proprio Francesco, e l'addetto al comando tiri ero io. E il tenente Porrus era sparito, sublimato insieme ai pneumatici della sua jeep.



Poi Francesco estrasse rapidamente dal sacchetto le due pistole, ed io cominciai a leggere la scena in slow motion. Fermo immagine, pallottole calibro 7,65 uscirono roventi dalle canne dei revolver. Fast forward, le ogive di piombo raggiunsero l’altro al torace, dal quale inizia a uscire sangue, nero come le sue ali. L’altro indietreggiò, portandosi le mani al petto, cercando forse di fermare l’emorragia. Poi gridò, un urlo lancinante, e in quel momento Francesco si avvicinò, l’altro era in ginocchio, e gli sparò un colpo a bruciapelo in testa. Mi parve di sentire il rumore di un pallone che si sgonfia. La mia bocca si aprì ma non ne uscirono parole, solo una nuvola di condensa, che rimase per qualche istante ferma a mezz’aria. Le loro ali sbatterono, senza rumore, ripiegandosi quelle di Francesco, restando aperte, in una tensione innaturale, impossibile quelle dell’altro. Per qualche istante, tutto si fece scuro, scariche elettriche attraversarono orizzontalmente il cielo gravido di nubi e orrore, restai a guardare ancora la scena, non potevo distogliere lo sguardo, sentivo che avrei dovuto fare qualcosa ma ero come paralizzato.



Poi Francesco si girò, ridendo forte, e sempre con le pistole in mano si avvicinò a me. “Ora mi ammazza” pensai, “a causa di quella vecchia storia, il passato ritorna sempre”. Non riuscivo a muovermi, osservavo con orrore il corpo dell’altro che a terra si stava disseccando, mummificando, poi diventò polvere e rapidamente si dissipò, scomparve, non ne restò nulla. Lo stato di congelamento della realtà sembrò rompersi, la cappa di nuvole si allargò, sentii il sangue che scorreva urgente nei miei vasi cerebrali, i rumori ambientali riempirono nuovamente le mie orecchie.



Guardai Francesco negli occhi, lui prese le pistole dal lato della canna e me le porse “conservale, e ricordati di me”, mi disse, con una voce strana, irriconoscibile. Afferrai le pistole impugnandole, il calcio era gelido e sgradevole, e mentre stavo alzando lo sguardo nuovamente su di lui per chiedergli cosa farne, dove metterle, Francesco sparì, ancora qualche piuma nera volteggiò nell’aria e poi appesantita dalla pioggia cadde sull’asfalto umido del parcheggio. Ebbi il tempo di vedere le piume planare a terra e svanire, come assorbite dalla terra stessa, mentre sirene urlavano sinistramente nel tramonto inquinato e sanguinoso della città.



Tolsi il mio giaccone, lo buttai via lontano, si liberarono grandi ali bianche, sbatterono alcune volte, presero forza, mi alzai e presi quota mentre le pantere della polizia entravano nel parcheggio del poligono di tiro. Ero già alto, tra le nuvole impregnate di gas velenosi sopra la città, guardai sotto, forse questa storia non era ancora finita. Forse.


venerdì 22 aprile 2011

la fine del mondo, domenica a mezzogiorno


Le folle oceaniche del ventesimo secolo erano ormai un ricordo. Spesso, si sedeva nella sua poltrona bianca, accendeva il televisore a  schermo virtuale gigante, e rivedeva con enorme nostalgia le piazze piene, riascoltava i cori, gli applausi, la vibrazione che si propagava dalla folla fino a raggiungere la finestra dalla quale si compiaceva, leggeva, declamava, salutava, benediva le folle. E le colombe bianche, che volavano via incerte e spaventate.

Quella domenica, la piazza era semideserta, solo gli uomini della sicurezza, alcuni curiosi capitati lì per caso, una pattuglia di turisti tedeschi, di cui due omaccioni vestiti alla moda tirolese, un paio con giubbotti di pelle già brilli, uno con una t-shirt sulla quale campeggiava il faccione equino di Michel Schumacher.

Il consigliere, accanto a lui dietro la finestra aperta, da dietro la tenda mormorava tenendosi il volto tra le mani “la fine del mondo, la fine del mondo…”

L’uomo con le ciabatte rosse serrò le mascelle ruminando qualcosa d’incomprensibile, poi chiuse la finestra, si calcò la papalina sul cranio lucido, si ritirò nel suo ufficio.

“Lasciatemi solo”, disse ai suoi collaboratori. Il Papa aprì il cassetto del secretaire, prese la chiave della cassaforte, e scese le scale fino alla Cappella Sistina. Spense le luci, aprì il forziere che conteneva il tabernacolo, scostò il calice con le ostie consacrate, premette un grosso pulsante rosso.

“La fine del mondo, e così sia”, mormorò il Papa.

Dalle stazioni spaziali orbitanti, si vide un fiore di fuoco sbocciare sulla terra, poi tutto fu spazzato via dall’onda d’urto.


 

mercoledì 6 aprile 2011

perchè, non capisco



l meridione d'Italia, e la Sicilia con le sue "isole minori", hanno una inevitabile vocazione turistica: storia, arte, natura, colori, sapori, odori e sensazioni uniche.

Non si capisce, io non capisco perche' i profughi (siano migranti, evasi, disperato o furbi poco cambia) debbano soffocare il Sud. Ah, certo, sono odiosamente razzista solo a pensarlo. Si poteva fare diversamente? Si. Si puo'.

Le navi, dislocate nel Mediterraneo, di fronte le coste dei paesi in rivolta. L'Europa deve schierare grandi navi da crociera, che non si usano più, per raccogliere, ospitare dignitosamente, selezionare, identificare e smistare o espelle o riportare indietro coloro i quali non meritano l'accoglienza. Si potrebbe anche impiegare produttivamente chi arriva su queste grandi navi, dal numeroso equipaggio, facendoli lavorare, ovviamente pagati, su quelle stesse navi che li hanno accolti e salvati.

I campi e le tendopoli non sono una soluzione. La storia l'ha dimostrato.

venerdì 18 marzo 2011

odore, odore forte

di guerra, di caos, di polvere da sparo e di noccioli fusi, che attraversano la terra come burro e poi...game over.

sabato 5 marzo 2011

ma che bel sogno


Sto dormendo, e devo fare un sogno in cui faccio finta di. Scarto i sogni erotici, non ho più il phisique du role, scarto i sogni alimentari, sono a dieta, e scarto i sogni di volare, precipitare, lottare che tanto ne faccio di mio.

Facciamo finta che io sia un deputato del pdl. La mattina mi sveglio e penso a come migliorare l'Italia, le sue infrastrutture, valorizzare i giovani con lo studio e il lavoro, combattere il malcostume e lo sbracamento globale. Poi, mi ricordo che sono stato scelto dal premier per fare leggi adatte a salvargli il culo flaccido. Devo immediatamente svegliarmi, ma non ci riesco, o forse si, ma nel frattempo il deputato pdl del sogno urla come un ossesso" Fanculo all'Italia e agli italiani".


lunedì 21 febbraio 2011

vado pazzo per le proiezioni


Udite, udite:



Vado Pazzo per le Vacche sarà proiettato sabato 26 Febbraio alle 18.15 presso il Cinema Lumiere (Cineteca di Bologna) a Bologna, nell'ambito del festival di cortometraggi "Visioni Italiane".

Andate, e tifate per me e Tommaso Magnano, il regista che va pazzo per le vacche. 
 


domenica 23 gennaio 2011

vado pazzo per le vacche - le proiezioni

Dunque: a Enna, presso il caffè letterario Al Kenisa, venerdì 11 febbraio alle 19

                 a Palermo, presso il b&b "al giardino dell'alloro" (in vicolo san carlo 8) sabato 12 e domenica 13 dalle 18              alle 20.

                 a Palermo, presso la libreria "modusvivendi" di via quintino sella, domenica 13 febbraio alle 11.30.



accorrete, accorrete.



vado01 

lunedì 3 gennaio 2011

vado pazzo per le vacche

Eccolo, il trailer del corto che Tommaso Magnano ha realizzato sulla base del mio racconto "vado pazzo per le vacche" (contenuto nella raccolta Fulminati). 



http://www.youtube.com/watch?v=JcUG577rP3Q&feature=player_embedded