mercoledì 28 aprile 2010

il portamangiare




 



Ogni pomeriggio ci trovavamo al chianu, uno portava il pallone, se ce l'aveva. Altrimenti si pigliava una buatta di pomodori pelati sfondata, una mezza cucuzza, una palla di stracci sfardati. E diventavano pallone.


Io, sempre nella squadra di Piero giocavo. Quando si faceva il tocco a pari miei e dispari tuoi, Piero per primo si pigliava a me. Umbertino è mio, e mi spostava da una parte; capace che eravamo dispari, e allora lui diceva, siccome mi sono preso Umbertino, quello in più ve lo pigliate voi. Io ero nico, ma correvo, e facevo per tre. Tanto vincevamo lo stesso. Poi, un'estate Peppe, che abitava a Bologna, tornò con la novità che si poteva fare a porta romana, un solo portiere, e due squadre, una bella novità, che veniva meglio quando eravamo dispari.


In porta ci finiva sempre Pinuzzo, che era sciancato e non poteva correre, e qualche volta Mirella, la sorella di Peppe, che dice che era sua sorella ma cafuddava come un masculo, se serviva di alzare le mani. A me, quella mi era sempre sembrata un maschio con la gonna, e il dubbio mi restò a lungo. Un'estate non vennero al paese, né Peppe e manco Mirella; la gente diceva che avevano buttato il padre in collegio, perchè aveva sparato a uno. Ma che significa collegio? Non si chiamava galera?


Comunque non vennero più, per molte estati, e quando ripigliarono a venire al paese nel mese di agosto passavano sempre arraso al muro, e al chiano non si fermavano.


 


Lo sapevo, lo sapevano tutti che la mamma di Piero non stava bene. Quando passavo davanti alla sua casa lei era sempre assittata in una seggia di legno, col gatto sotto, e spicchiava fave e piselli, se era maggio, o tagliava i pomodori per farli secchi se era agosto,e mi chiamava, Umbertino, vieni vieni da zia. Io m'avvicinavo, ma mi faceva impressione, aveva la faccia mezza caduta, anche se rideva pareva che piangeva, e un poco di saliva ci scolava, che se l'asciugava con un fazzoletto che subito ammucciava nella sacchina del vestito. Mi faceva una carezza, e io mi scantavo, e un poco mi schifiavo, e poi per fortuna affacciava Piero e ci dicevo, Piero, amuninni al chiano, c'aspettano per la partita.


Però da casa sua usciva sempre un ciavuru, un profumo di roba da mangiare, e Piero me lo diceva, oggi a'mamà mi cucinò il coniglio, stasera ci sono le patate al forno con le cipolle, e a me mi venivano i rumori allo stomaco, che qualche volta ci sarei rimasto a mangiare, pure che sua madre mi faceva impressione, con quella faccia caduta e la bava che ci scendeva sul mento.


Invece a casa mia, che eravamo nove fratelli, e quelli grandi travagghiavano in campagna ci toccava un piatto funnuto di pasta e fagioli ogni sera, e a me se mi andava bene, nel mio piattino ci finiva la pasta rotta con tanticchia di acqua di fagioli.


Umbertino è nico ma crescerà, pigliati stò pezzo di pane diceva Paolo, mio fratello maggiore, e io me lo mangiavo, che quando uno è nico, sempre pititto ha.


 


Un pomeriggio, faceva un caldo che pareva che le pietre del chiano erano state messe nel fuoco, aspettavamo a Piero per giocare a pallone, a Salvuccio ne avevano regalato uno come quello che usavano i calciatori veri in televisione, a spicchi bianchi e neri, che prima di usarlo dovevamo passare da Santuzzu u'falegname, Salvuccio pigliava dalla tasca una specie di cannuccia di ferro, l'attaccava prima al compressore e poi al pallone e quello si gonfiava, e quando era bello gonfio a tirarlo di destro ci sentivo soddisfazione,  e diventava veloce.


Però Piero non arrivava, a un certo punto dissi che l'andavo a chiamare io a casa, e mi feci una corsa di quelle, che è vero che ero nico, ma ero veloce.


Davanti alla porta la seggia non c'era, e manco il gatto. E la porta era chiusa. Piero Piero mi misi a chiamare, poi s'affaccio nella vanedda la gnà Giulietta, e mi disse Umbertino basta non abbanniare più. Poi uscì dalla porta, se la portarono all'ospedale la mamma di Piero, disse la gnà. E Piero dov'è, chiesi io, poi torna, andò in campagna a chiamare a so zio. 


Non ce n'era ciavuru di mangiare, allora passai al chiano e ci dissi agli altri che non si giocava.


Me ne tornai a casa, e mentre mia madre mi metteva la minestra nel piatto chi chiesi dov'era il portamangiare, quello d'alluminio col tappo a vite che si portava mio padre quando andava al cantiere della forestale. A che ti serve, rispose mia made, niente, a niente ci dissi io.


La sera arrivò la notizia che la zia Amelia, la mamma di Piero, era morta, e che l'indomani la portavano al paese per il funerale.


Prima di coricarmi, cercai nella dispensa, dietro alla burnia con le olive salate trovai il portamangiare.


Me lo misi sotto al cuscino, e all'angelo custode ci dissi che me lo doveva fare trovare pieno, che ci dovevo portare il mangiare a Piero, che mi sceglieva sempre per la sua squadra, ora che la sua mamma non ci poteva cucinare più.


 


7 commenti:

amoilmare ha detto...

hai il dono di saper raccontare, e emozionare*

yaki ha detto...


avete un dialetto che arricchisce molto la parlata e il racconto.
bello così, peccato per la mamma di Piero.

sherazade2005 ha detto...

Già..la solidarietà era la ricchezza dei poveri.
L'anima oggi è sommersa dall'inutile.

sheraunbuonprimomaggioebenvengamaggioelemieroseingiardino

cumino ha detto...

Bellissimo racconto, che scorre sotto lo sguardo e porta emozioni.
P.S. La foto è tua? A casa tua?

anonimo ha detto...

ohhh
come va la primavera (e) laggiù?
[IMMAGINE]

shershersher

Medicineman ha detto...

*cumino: la foto l'ho rubacchiata su internet :-)

e.l.e.n.a. ha detto...



bello. e delicato.
che sembra di sentire il profumo di quei piatti che cucinava la mamma di piero.
noi se non s'andava al campetto dietro la chiesa si andava al pianoro, sopra i castagneti.
io non giocavo in porta. e nemmeno pensavano che fossi un maschio.