venerdì 15 maggio 2009

ho lasciato la mia camera alle 7.30





Ho lasciato la mia camera d’albergo alle 7.30. L’ho fatto convinto che ci sarei rientrato dopo qualche ora di chiacchiere e diapositive di power point, per fare una doccia e riposare un po’. Poi avrei preso un altro caffè con un’altra bustina di dolcificante senza zucchero. Avrei aperto la porta finestra scorrevole e mi sarei affacciato sul balcone, guardando i miei colleghi che, fumando e facendo piccole passeggiate nervose, si sarebbero raggruppati in minimi capannelli dicendosi con gli occhi semichiusi, ma che bella vista. La stessa vista che io vedo da questo balcone, una spiaggia con la sabbia grigia, popolata da coppie di gay oleati, disoccupati e troiette in minigonna, e il mare grigio come la sabbia , e due petroliere ancorate al largo. Ci sono anche due gommoni rossi dei vigili del fuoco, che si stanno esercitando in simulazioni di salvataggio, tirando a bordo durante dei passaggi a bassa velocità un fantoccio di gommapiuma sempre più pesante, sempre più inzuppato d’acqua di mare.

Ho lasciato la mia camera d’albergo alle 7.30 per andare a fare colazione ed evitare di aspettare come ieri per un caffè: ieri l’ho aspettato per cinquanta minuti, dopo mi sono alzato dal tavolo, sono andato a parlare con la direttrice dell’albergo, una secca bionda lunga con occhiaie incorreggibili e l’ho cazziata, senza gridare però. Quella ha alzato il telefono e ha sibilato qualcosa alla cameriera scura con la faccia da faina, che mi passava davanti sculettando mentre aspettavo quel maledetto caffè dicendomi si ora arrivo. Poi è venuta un’altra cameriera triste, una specie di spaventapasseri in cassa integrazione, e mi ha portato un caffè orrendo. Spero solo che la cameriera dalla faccia di faina non ci abbia sputato dentro, comunque faceva schifo lo stesso.

Avevo lasciato la mia camera d’albergo alle 7.30, sicuro che ci sarei rientrato cinque ore dopo. Però nel corso della mattinata mi era arrivata una telefonata, una di quelle in cui sto a sentire una voce di donna, la voce di una donna che conosco da venticinque anni, una voce che ha parlato a scatti, e poi ho capito che aveva iniziato a piangere.

Così ho dovuto fare ritorno anticipato e inatteso alla camera 103, rifare il mio bagaglio, raggruppando le mie cose che avevo artisticamente sparpagliato in giro, giusto per sentire che in quella camera ci abitavo io, ho chiuso la valigia ed ho aspettato senza entusiasmo un taxi. Nel frattempo sono venuti dei colleghi a dirmi cose che non ho ascoltato.

Adesso sono le ventidue, l’aereo ha accumulato un ritardo da compagnia del terzo mondo, la gente che aspetta ha reazioni incontrollate, si muove in branchi, grida, aggredisce uomini in divisa, alza le braccia. Qualcun altro osserva la scena, tanto sa che partirà, alla faccia di quegli stronzi che invece aspetteranno ancora.

Non so quando arriverò a casa, ho un latente desiderio di cena e di letto, e una certa urgenza di pisciare.

Adesso  sono le ventitre, e sono nella poltrona di pelle dell’aereo, quello accanto a me si è addormentato istantaneamente, non appena si è seduto. A guardarlo di profilo sembra un gigantesco topo morto, ma non posso fare a meno di girare lo sguardo verso di lui perché è seduto accanto al finestrino.

Le luci nella carlinga si sono abbassate, penso che tra poco partiremo.

 

5 commenti:

ranafatata ha detto...

Però non ci hai detto che cosa diceva la voce di donna...

sherazade2005 ha detto...

Un racconto veloce e stringato, duro come un pugnoa allo stomaco.


Sheraunabbraccio

sherazade2005 ha detto...

??? niente

xdanisx ha detto...

:-(

Forzaforzaforza.

Abbiamo cameriere che è meglio il caffè di moka express...

bacio.

s.

WaitingP ha detto...

anch'io ne vorrei un altro pezzo!